Dopo ventisette anni si volta pagina sulla demenza di Alzheimer. Dal punto di vista operativo e culturale. Il mondo scientifico comincia prudentemente a parlare di prevenzione e della possibilità di accertare la malattia presto, molto presto. Una marea di ipertecnologie spalleggia l’ arrivo dei nuovi criteri diagnostici (i primi erano del 1984) che aprono la strada ad una frontiera farmacologica innovativa. Ma la paura resta. Trai parenti di chi è malato e tra chi ha solo sentito parlare di Alzheimer. Basta una dimenticanza, le chiavi della macchina, un appuntamento mancato, un nome amico che rimane sospeso, e scatta il panico. Serpeggia l’ idea che tutti prima o poi possano ammalarsi specie a una certa età.
“Non è vero che l’ Alzheimer colpisce tutti e non è vero che invecchiare significa diventare dementi, anzi la maggior parte degli anzianii nvecchia con successo -ribadisce Orazio Zanetti, geriatra all’ Irccs Fatebenefratelli di Brescia – ma si vive di più, quindi tra i 70 e gli 85 anni i rischi aumentano”.
Purtroppo manca un esame, un test per scovare e misurare la malattia.
E se la memoria è la prima funzione colpita, quando ci si accorge di perdere colpi non sempre è Alzheimer. “Uno stress prolungato, la stanchezza giocano un ruolo importante, il punto è che la memoria si modifica nel corso della vita e richiede il ricorso a piccoli trucchi – dice Zanetti bisogna preoccuparsi quando il disturbo incide sull’ autonomia e sulle attività quotidiane: dimenticare il nipotino a scuola è un campanello d’ allarme così come trascurare il proprio aspetto o non riuscire ad organizzare un pasto”.
Adesso, per la prima volta dopo anni di ricerche, due cose sono certe (Lancet Neurology): l’ Alzheimer è degenerativa, ed è facilitata dagli stessi fattori di rischio, sette per l’ esattezza, che favoriscono l’ aterosclerosi. A questo punto è dunque plausibile cominciare a parlare di prevenzione del rischio.
Il Rapporto mondiale ADI 2011, che verrà presentato domani in occasione della tredicesima Giornata internazionale Alzheimer, per la prima volta esorta istituzioni, medici e pazienti ad accertare la presenza della malattia il prima possibile. Perché dei 36 milioni di malati stimati tre quarti non hanno una diagnosi né cure “Una diagnosi che nelle forme iniziali, quando cominciano a comparare i primi sintomi, si avvale ancora dell’ esame clinico, mentre avrebbe bisogno di marcatori biologici per la certezza-spiega Giovanni
Frisoni neurologo e vice direttore scientifico del Centro nazionale Alzheimer dell’ Irccs Fatebenefratelli di Brescia – I nuovi criteri diagnostici includono la risonanza magnetica ad alta definizione per misurare l’ ippocampo, la "cassaforte" dei ricordi, soggetta ad atrofia nella malattia; la Pet che permette di vedere il metabolismo di alcune aree del cervello coinvolte dalla malattia e, infine, la puntura lombare per dosare le due sostanze tossiche (proteina beta amiloide e tau) che si accumulano nel cervello”. Un quarto marcatore per la Pet non ancora disponibile in Italia è una sostanza che lega l’ amiloide e potrebbe sostituire la puntura lombare che fa ancora tanta paura, seppur senza ragione.
A questo punto il dibattito si sposta sulla opportunità o meno di diagnosticare in anticipo la malattia, quando la persona è ancora autonoma, fase che dura in media da i a 5 anni. Secondo Frisoni ci sono pazienti che vogliono sapere per controllare in prima persona l’ evoluzione della malattia, altri rassegnati e fatalisti. Tuttaviala possibilità di agire sui fattori di rischio e di intervenire con farmaci sintomatici, con fattori protettivi, complessi vitaminici, attività fisica e mentale è un passo avanti che non può essere ignorato.
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