Henrietta Lacks e le cellule immortali

D Repubblica
Mara Accettura

 

Medicina TOP Secret. Si chiamano HeLa e hanno reso possibile il vaccino contro la polio, la clonazione, la fecondazione in vitro, etc. La giornalista Usa Rebecca Skloot rivela la storia straordinaria della donna a cui furono "rubate". E il lato oscuro della ricerca scientifica

Nel 1951 una donna nera della Virginia, appena trentenne, viene ricoverata in ospedale per un tumore all’utero. I medici, senza il suo consenso, le prelevano un pezzo di tessuto malato per studiarlo. La donna muore di lì a poco, ma quel pezzettino continua a crescere in laboratorio, come la gramigna. Si chiama HeLa, e oggi è una linea cellulare (un clone brevettato delle cellule originali) che gli scienziati conoscono molto bene. Perché è praticamente immortale: un mulo da fatica che ha rivoluzionato la ricerca scientifica e il business a essa legato. Grazie alle cellule HeLa, comprate e vendute a milioni di miliardi dai laboratori di tutto il mondo, sono state fatte ricerche scientifiche sbalorditive, di cui abbiamo beneficiato tutti, dal vaccino contro la poliomielite alla clonazione, alla fecondazione in vitro… Se le cellule sono ricche e famose, la persona a cui appartenevano, Henrietta Lacks, povera coltivatrice di tabacco, famiglia di antenati schiavi, era del tutto sconosciuta. Fino a quando Rebecca Skloot, giornalista scientifica di Chicago, l’ha "resuscitata" con La vita immortale di Henrietta Lacks (Adelphi, in libreria dal 7 settembre), un libro-tributo (diventerà un film prodotto da Oprah Winfrey, che se ne è innamorata) ma anche un’inchiesta che rivela il lato oscuro della ricerca: nonostante gli indiscutibili benefici sanitari e il business miliardario, i cinque figli di Henrietta (che hanno appreso dell’uso di HeLa solo negli anni 70, dai giornali) non ne hanno ricavato nulla, problemi a parte. Sempre assediati dalla cronica mancanza di lavoro e dai problemi di salute che appartengono a quell’underclass americana che non può permettersi nemmeno l’assicurazione sanitaria. Paradossale no? Skloot ricostruisce con attenzione forense e grande passione umana le vicende scientifiche delle cellule, intrecciandole alle disavventure dei Lacks. Ma all’inizio è stata mandata a quel paese. "Si faccia una bella chiacchierata con le cellule della mia vecchia. Non ne posso più di quelli come voi", le rispose Day, 84enne vedovo di Henrietta, chiudendole il telefono in faccia. "I familiari non sapevano chi fossi. Dissi loro che potevano fidarsi, ma alla fine volevano che la loro storia fosse raccontata nel modo giusto", ricorda Skloot. "Quando li ho conosciuti meglio ho capito il motivo di questa diffidenza: avevano paura di essere sfruttati". Ci sono passaggi commoventi. Una delle figlie, Deborah, segue la giornalista di laboratorio in laboratorio. E come in una macchia di Rorschach, vede nelle HeLa il ritratto di una madre mai conosciuta. "Sono bellissime!", grida entusiasta, "non sapevo fossero così belle! Sai che c’è di strano? Ci sono più foto al mondo delle cellule di mia madre, di quelle che ho io di lei. (…) Voglio andare nei laboratori di ricerca, nei convegni, imparare cos’hanno fatto e parlare con la gente che è guarita dal cancro". Ma La vita immortale di Henrietta Lacks, risultato di una ricerca ossessiva durata 13 anni ("mi ripetevo che dopo il libro avrei fatto un figlio, ma non immaginavo che ci avrei messo tutto questo tempo!"), non racconta solo le ingiustizie e il razzismo subito da una famiglia nera, povera, ignorante. È un libro "con le palle", che scava nei rapporti tra etica, scienza e business. Un libro da Pulitzer. Se Henrietta entrasse in ospedale oggi, le succederebbe probabilmente la stessa cosa: nessuno le chiederebbe il consenso per usare un minuscolo pezzettino di tessuto avanzato da una biopsia. E anche in Italia, fino a qualche anno fa, era la prassi. "Siamo abituati a pensare che il nostro corpo sia "nostro"", dice Skloot. "Ma nel momento in cui vengono asportati dei tessuti per un test o un intervento, in effetti ne perdiamo il controllo e la proprietà. Pensiamo che vengano buttati via, ma non è così: in molti casi il surplus è conservato e usato per la ricerca". Nulla di male, la ricerca è una buona cosa, serve al bene comune. Nei laboratori degli ospedali e nelle biobanche di tutto il mondo "le nostre cellule sono coltivate, esposte a radiazioni, farmaci, virus… Senza questi test non ci sarebbero vaccini contro il vaiolo o il morbillo, medicine contro il cancro al seno o test come quelli per scoprire l’Hiv e l’epatite", continua Skloot. Ma anche nel caso del consenso informato, "i pazienti possono sapere fino a un certo punto che cosa avviene ai loro tessuti". E negli Usa, dove scienza e business vanno di pari passo, i litigi in questo campo "fanno diritto". L’autrice del libro ne cita i più importanti. È famoso il caso di John Moore, un signore che negli anni 80 ha scoperto che la sua linea cellulare era stata commercializzata da una società biotech e aveva raggiunto sul mercato un valore di tre miliardi di dollari. Il caso ha fatto rizzare i capelli a più di un giurista americano, ma si è concluso a sfavore di Moore, nonostante il suo medico, che l’aveva palesemente preso in giro, si fosse arricchito. La ragione? Quando tu lasci un pezzettino del tuo corpo in un laboratorio è un rifiuto: non è più tuo. In più una linea cellulare è coperta da un brevetto, è il risultato di una manipolazione, un lavoro di invenzione: sta al tessuto come un tavolo sta all’albero da cui proviene. Diverso è il caso di Ted Slavin, un emofiliaco i cui anticorpi sono serviti a creare il primo vaccino per l’epatite B. Slavin vendeva il suo siero a 10 dollari il millilitro per la ricerca. "La differenza tra Moore a Slavin sta nel fatto che Slavin aveva saputo che il suo sangue era prezioso prima che venisse rimosso dal suo corpo. Glielo aveva detto il suo medico curante. Ed è riuscito ad accaparrarsi i diritti". Al momento la società Myriad Genetics, che possiede il brevetto sul gene del tumore alla mammella, è sotto processo perché ha creato un monopolio sul test. "Una vicenda interessante, che sta avendo ripercussioni anche qui perché quel monopolio di fatto limita la ricerca e le cure", interviene il giurista Matteo Macilotti dell’Università di Trento. Nel 1999 una stima al ribasso riteneva che negli Usa fossero conservati più di 307 milioni di campioni di tessuto umano che provenivano da 178 milioni di donatori. E queste cifre, di per sé impressionanti, crescevano di 20 milioni di campioni all’anno: un’immensa banca dati, la biblioteca di Alessandria dei segreti del corpo umano. I campioni in genere sono anonimi, per ovvie ragioni. Ma nell’era del Dna e delle biobanche questa tutela fa acqua da tutte le parti. "Oggi puoi prendere un campione anonimo e scoprire di chi è. Non è pratica comune, ma è assolutamente fattibile. Quindi, anche se dai il consenso per la ricerca, come puoi essere sicuro di rimanere anonimo anche tra vent’anni?", si chiede Skloot. Nel 2005 una tribù americana indigena ha fatto causa all’Università dell’Arizona perché ha scoperto che dei campioni di tessuto prelevati per studiare il diabete erano stati usati per ricerche ulteriori sull’alcolismo, i rapporti tra consanguinei, il cammino evolutivo della tribù. "Erano preoccupati perché, tra l’altro, quei test avrebbero potuto minacciare il loro diritto alla terra, creando vari problemi. Ma sono riusciti a fermare la ricerca e farsi restituire i campioni. Sono stati anche risarciti: fu il primo caso a concludersi a favore dei pazienti". Un’altra vicenda ha visto coinvolti un gruppo di genitori in Minnesota e Texas, che ha denunciato la pratica diffusa negli anni ‘60 di conservare campioni di sangue di neonati. "È emerso che i campioni non solo erano stati prelevati senza alcun consenso, ma erano anche stati venduti o conservati in un database che violava il diritto alla privacy di quei bambini. L’anno scorso la corte del Texas ha ordinato di distruggere 5,6 milioni di campioni". Non è sempre stato così. Il caso di Henrietta ha avuto una coda piuttosto sinistra quando negli anni 70 i figli, trattati ancora una volta da ignoranti, sono stati identificati e coinvolti, a loro insaputa, in una ricerca sui marcatori genetici. E non gli è mai stato corrisposto alcun risarcimento per questa tremenda violazione. In Italia non c’è ancora una legislazione ad hoc che regoli il trattamento dei tessuti ai fini della ricerca, come accade in Spagna e nel Regno Unito, ma una serie di leggi sparse. "Per fortuna il garante della Privacy è intervenuto con una legge (196/2003) che regola l’utilizzo dei dati genetici", riprende Macilotti. "In pratica, per qualsiasi ricerca sui tessuti c’è bisogno del consenso informato. Questo succede anche per brevettare i tessuti, materia regolata dal Codice di proprietà industriale". Nonostante i traumi, il libro della Skloot ha avuto un considerevole effetto terapeutico sui Lacks: "Hanno conosciuto la mamma tramite quelle cellule, investendola di una missione salvifica. In genere scienza e religione sono in contrasto, in questo caso però la religione ha aiutato a capire la scienza. Deborah (oggi morta, ndr) credeva che l’anima della madre fosse immortale, e che attraverso le cellule fosse tornata sulla terra per fare del bene all’umanità". La storia di Henrietta ha forse più a che fare con la mancanza di istruzione che col razzismo. Per questo Skloot ha organizzato la Henrietta Lacks Foundation, un ente no profit per finanziare l’educazione dei Lacks più giovani, e che ha distribuito già diciannove borse di studio. Ancora oggi, però, molti dei Lacks non sono coperti da assicurazioni sanitarie. È scandaloso. Ma, conclude Skloot, un risvolto positivo c’è. "Ricevono tantissime email da scienziati che hanno chiesto scusa, ricercatori che hanno scoperto nuove medicine, ragazzi che li ringraziano perché i loro genitori sono vivi in virtù di quelle cellule. O perché sono stati concepiti con una fecondazione in vitro. Davvero credo non ci sia nessuno al mondo che non abbia beneficiato dalle cellule di Henrietta".
Appuntamento a MANTOVA Rebecca Skloot sarà ospite al Festivaletteratura di Mantova (dal 7 all’11 settembre), sabato 10 al chiostro del Museo Diocesano alle 11. Converserà con lei su La vita immortale di Henrietta Lacks, il giornalista e filosofo Armando Massarenti. Tra gli appuntamenti più interessanti a Mantova segnaliamo: Robert Harris e Andrea Purgatori (Intrighi internazionali, Palazzo di S. Sebastiano giovedì 8), la giovanissima esordiente Téa Obreht, vincitrice dell’Orange Prize con L’amante delle tigre, che incontra Serena Dandini (venerdì 9, Palazzo di S. Sebastiano), Salvatore Scibona (autore di La fine) in On fussing, sulla scelta delle parole (domenica 11, Chiesa di Santa Maria della Vittoria), Alain De Botton con Peter Florence su Le consolazioni della religione (Palazzo Ducale) e il vincitore del Booker 2010 Howard Jacobson, autore dell’Enigma di Finkler, con Moni Ovadia (Palazzo Ducale), entrambi sabato 10. Una ricca sezione dedicata a bambini e ragazzi comprende il laboratorio Un giardino da passeggio con Nadia Nicoletti, per piccoli aspiranti giardinieri, e quello con Fausto Giliberti Friggiamo Lady Gaga. Quest’anno il Festival avrà un focus speciale sulla primavera araba. Nell’incontro I giovani arabi tra piazza e libertà, i blogger Amira al-Husseini e Ramy Raoof (Aula Magna dell’Università) e Ala al-Aswani (Palazzo Ducale) si confronteranno il 9 settembre con la blogger e giornalista Paola Caridi. Info: www.orientarsialfestival.it

3 settembre 2011

 

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