Dandone qui notizia, Angelo Aquaro l’ha definita "una rivoluzione", e per una volta il nome non era abusato. Sostengono vibratamente, le 24 pagine del rapporto, che occorre ripudiare la "criminalizzazione, l’emarginazione, la stigmatizzazione di quanti fanno uso di droghe senza procurare danno ad altri". Che bisogna sperimentare modi di regolazione delle droghe che contrastino i traffici illegali e che non si traducano, in nome della guerra alla droga, in una guerra ai drogati. Che le cifre parlano di un ininterrotto aumento del consumo di oppiacei, di cocaina e marijuana. Che il consumo ha perduto il suo appeal trasgressivo per diventare un’abitudine "universale". Che bisogna passare da un trattamento penale a uno sanitario.
Le rivoluzioni più vere sono quelle che avvengono nei modi di pensare e di sentire. Il documento dei saggi dell’Onu apre problemi ardui, ma rovescia una mentalità tanto ovviamente accettata quanto arbitraria.
Lo denunciava già Milton Friedman: combattere l’offerta mentre la domanda non fa che crescere non riduce il consumo ma ne esalta i costi e la violenza. L’economista Friedman non si limitava alla constatazione sulle fortune del mercato criminale. "Sul piano etico, abbiamo il diritto di usare la macchina dello Stato per impedire che una persona diventi alcolista o tossicodipendente? Per i bambini, quasi tutti risponderebbero almeno con un convinto sì. Ma per adulti responsabili, perlomeno io risponderei di no. Ragionare con il tossicodipendente potenziale, sì.
Spiegargli le conseguenze, sì. Pregare per lui e con lui, sì. Ma io credo che non abbiamo il diritto di usare la forza, direttamente o indirettamente, per impedire ad un altro uomo di suicidarsi, figuriamoci di consumare alcol o droghe". C’è un’affinità stretta fra la crociata proibizionista e la passione per l’idratazione forzata di Stato, un’idea del potere politico (e religioso) come espropriazione del corpo dei sudditi. Il rapporto ricorda che "le persone che consumano droga non perdono i loro diritti civili". Ora, a firmare il rapporto sono personaggi poco trasgressivi come Kofi Annan o George Schultz, ex ministro di Nixon e Reagan; l’ex presidente della Federal Bank Volcker, l’ex presidente federale svizzera Ruth Dreyfuss, Javier Solana, l’ex ministro degli Esteri norvegese Stoltenberg, l’ex commissaria Onu per i diritti umani Louise Arbour, il Nobel Mario Vargas Llosa e Carlos Fuentes, il premier greco Papandreu, l’imprenditore di Virgin sir Richard Branson ("Le politiche fin qui seguite hanno soltanto riempito le nostre celle, costando milioni di dollari ai contribuenti, rafforzando il crimine e facendo migliaia di morti"), il banchiere e presidente del World Trade Center memorial Whitehead ecc. (trovate i nomi e il testo sul sito della Commissione). Non esattamente un Centro Sociale. Il rapporto dichiara la bancarotta di 50 anni di "guerra alla droga", cita le esperienze positive e selettive di riduzione del danno, dal Canada al Portogallo alla Svizzera all’Olanda, e invita a firmare una petizione internazionale da presentare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Sono due i fattori che possono incidere in modo decisivo sul consumo di droghe nocive: un cambiamento nei consumatori, e un cambiamento nei non consumatori. La sicurezza del mondo è messa a repentaglio dall’enormità degli interessi mossi dal narcotraffico, dall’Afghanistan al Kosovo alla Calabria al Messico. Quanto alle nostre strade, gran parte dei reati e delle sciagure che le insidiano dipende dalla tossicodipendenza e dalla sua illegalità. Le carceri ne traboccano. L’altroieri è morto a Padova un giovane sniffando la bomboletta di gas: dieci giorni prima il suo compagno di cella era morto sniffando la sua bomboletta. Per l’uno e per l’altro non si saprà se chiamarlo suicidio o disgrazia, e non fa una gran differenza, là. La guerra mondiale alla droga ha il suo piccolo epilogo anche nella branda su cui è morto Stefano Cucchi. I firmatari del rapporto, e i tanti che hanno constatato da tempo il disastro della "guerra alla droga", non hanno soluzioni facili e universali, e non a caso insistono sulle distinzioni e le sperimentazioni. Non è una soluzione il passaggio dal trattamento criminalizzante a quello sanitario, se non nelle condizioni di una dipendenza sofferta come una malattia. Altrimenti, come ha mostrato proprio il calvario di Cucchi, il passo fra galera e ospedale può farsi brevissimo. La legalizzazione della droga darebbe un colpo formidabile alla criminalità, e libererebbe i consumatori dal ricatto dei trafficanti e dalla persecuzione pubblica.
Moltiplicherebbe il consumo? Non so, non mi sentirei di escluderlo. Come con l’alcool, col fumo. Ma questo dubbio rende più evidente l’importanza decisiva della formazione, dell’informazione e dell’esempio. Compresa l’eventualità di mostrare che si può essere altrettanto e più bravi e perfino felici in una giornata sobria. In ogni caso, sull’altro piatto della bilancia sta il disastro. Il documento di quei 19 così per bene – che già ha suscitato un’esuberante discussione sulla rete – è una preziosa occasione per una discussione cui nessuno ha ragione di sottrarsi. Peccato dunque che un editoriale sull’Avvenire, di Giuseppe Anzani, abbia voluto sbrigarsi a chiudere ogni spiraglio a fatti e deduzioni, e a pronunciare un anatema: "Daremmo noi schiavitù e morte in luogo delle mafie". "Noi – scrive – non facciamo la guerra ai drogati, facciamo la guerra ai drogatori". Vai a visitare una galera, e ne riparliamo.
Non è il proibizionismo, e le narcomafie, e l’eroina tagliata, e le infezioni, a dare morte e mortificazione a corpi e anime? Del resto l’Italia è rappresentata alla Conferenza dell’Onu sulla lotta mondiale all’Aids, dall’8 al 10 giugno, dal sottosegretario Giovanardi, che ha definito il rapporto "Baggianate". I radicali hanno presentato un’interrogazione per chiedere al governose questa scelta non sia "troppo riduttiva".
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