Stop alle operazioni senza speranza anche se c’è il consenso del paziente

La Repubblica.it

ROMA – Violano il codice deontologico i medici che sottopongono ad interventi pazienti "inoperabili" e afflitti da patologie che lasciano loro solo poco tempo di vita, anche nel caso in cui sia stato proprio il paziente a dare il suo consenso informato all’operazione. Lo sottolinea la Cassazione confermando la condanna per il reato di omicidio colposo nei confronti di tre medici dell’ospedale San Giovanni di Roma che avevano operato, provocandone la morte, una donna di 43 anni che aveva solo 6 mesi di vita per un tumore al pancreas con metastasi diagnosticate e già diffuse ovunque.

La Suprema Corte, con la sentenza 13746 della IV Sezione penale, specializzata in colpa medica, ha confermato la responsabilità del chirurgo Cristiano Huscher e dei "camici bianchi" Andrea M. e Carmine N.. I supremi giudici hanno condiviso "il prioritario profilo di colpa" individuato a carico dei sanitari dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 28 maggio 2009, per aver violato oltre alle regole di prudenza, anche le disposizioni "dettate dalla scienza e dalla coscienza" di chi abbraccia la professione medica.

"Nel caso concreto – spiega la Cassazione – date le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi inoperabile) non era possibile fondatamente attendersi dall’intervento un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita". Anche se l’intervento, prosegue la Cassazione, era stato "eseguito in presenza di consenso informato della donna 44enne, madre di due bambine e dunque disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita". "I chirurghi pertanto – sottolinea la Cassazione – avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico". Il dottor Huscher, infatti, è stato tratto a giudizio non solo per l’omicidio colposo della paziente, provocato dalla lesione della milza durante l’inutile tentativo di asportarle le ovaie, ma anche per aver preso la decisione "di voler effettuare l’intervento chirurgico".

La signora, Gina L., morì all’ospedale San Giovanni di Roma la notte dell’11 dicembre 2001, in conseguenza dell’emorragia letale che il primario Huscher non si era nemmeno accorto di aver provocato. Poche ore dopo essere uscita dalla sala operatoria, Gina inizio a stare male e fu necessario addirittura tentare di rianimarla. Nella concitazione della manovra le fratturarono anche lo sterno e due costole. Ad Huscher è stata inflitta la pena ad un anno di reclusione, a Carmine N. quella di dieci mesi e di 8 ad Andrea M.. Il reato però si è prescritto perché sono passati più di 7 anni e mezzo dal delitto. La Suprema Corte, però, ha confermato la colpevolezza dei tre dottori che dovranno, almeno, provvedere al risarcimento civile dei danni morali inflitti ai familiari della paziente privata anzitempo della pur breve vita che le rimaneva.

 

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