La Vita indipendente

Relazione sulla Vita indipendente, tenuta al primo congresso dell’Associazione Coscioni, di John Fischetti


Per iniziare una citazione:
“Indipendent Living non significa che noi non abbiamo bisogno di nessuno, che vogliamo fare tutto da soli o che vogliamo vivere in isolamento. Vita Indipendente significa che vorremmo avere la stessa possibilità di controllo e di scelte nella vita quotidiana che i nostri fratelli e sorelle, vicini di casa e amici considerano come garantite. Vorremmo crescere nelle nostre famiglie, frequentare la scuola vicina a casa nostra, usare lo stesso autobus, svolgere lavori secondo la nostra istruzione e le nostre capacità. E la cosa più importante è che abbiamo bisogno di essere responsabili delle nostre vite, e, proprio come chiunque altro, di pensare e di parlare per noi stessi”

Queste parole sono state dette da Adolf Ratzka, leader del movimento europeo per la vita indipendente.

La definizione Vita Indipendente nasce negli USA della fine degli anni ’60. In California. Un gruppo di studenti con gravi disabilità frequentava l’università di Berkeley e per sopperire ai problemi causati dalla disabilità queste persone venivano “ospitate” cioè ospedalizzate nel locale ospedale, con tutti i limiti e le regole che a torto o a ragione vengono imposti in quel tipo di struttura..

I fermenti culturali e politici di quei tempi e soprattutto di quei luoghi, la presenza di forti movimenti di liberazione e autoaffermazione (neri, donne, omosessuali e via dicendo) ha prodotto in quegli studenti disabili la consapevolezza che anche loro avrebbero potuto gestire e controllare direttamente la loro vita senza dover attendere servizi e assistenza organizzati da altri.

Ottennero un primo finanziamento sperimentale per pagare gli assistenti personali e così poterono dimostrare la validità dell’idea e delle tecniche di gestione che svilupparono. Poterono dimostrare soprattutto che pur con la stessa cifra stanziata la loro qualità di vita era enormemente migliorata.

L’ambiente era fertile, dovunque questa nuova idea venisse illustrata, veniva accolta con entusiasmo dalle persone con disabilità e il movimento detto della “Independent Living” in pochi anni si diffuse, prima in tutti gli USA e poi negli altri continenti.

Oggi, facendo una ricerca su internet, se digitate “Independet Living” in un motore di ricerca trovate molte decine di migliaia di riferimenti. Ad esempio su Google il risultato è 232.000 pagine trovate. Cercando il termine spagnolo “vida indipendiente” il risultato e’ di quasi 9000 pagine. In italiano “vita indipendente” dà come risultato oltre 6200 pagine.

In Europa questi concetti attecchirono soprattutto a partire dai Paesi del nord. In Svezia gli esperimenti falliti dei villaggi senza barriere destinati alle persone con disabilità avevano deluso aspettative e speranze e questa nuova idea rispettosa delle diversità e degli individuali stili di vita venne accolta con grande favore. La “tecnologia sociale” in quel Paese privilegiò una implementazione collettivista del concetto “vita indipendente”. Nacquero delle cooperative, con capofila STIL (Stockholm Cooperative for Independent Living), in cui i soci sono le persone con disabilità e i dipendenti sono gli assistenti personali.

Paese strano e per certi versi interessante, la Svezia,, capace di tenere insieme un livello di welfare molto elevato, capace di finanziare con cifre cospicue l’assistenza per le persone con disabilità, e nel contempo di accettare e giustificare socialmente e politicamente la pianificazione dell’aborto coatto in presenza di malformazioni nel feto (pratica abbandonata non molti anni fa). In Italia accade il contrario, si finanzia l’assistenza a livelli indecorosi ma si proclama la sacralità dell’embrione, e si plaude a quei genitori che decidono di far nascere un figlio anche con gravissime disabilità.

Ma torniamo alla vita indipendente: anche in Irlanda e nel Regno Unito questa idea attecchì e si sviluppò in modo diverso rispetto alla Svezia. Un modello che si potrebbe descrivere come più individualista, in cui è la singola persona che contratta con gli uffici pubblici la quantità di ore di assistenza personale e che gestisce questi fondi direttamente. Non a caso nel Regno Unito questo fondo si chiama “Pagamento diretto”.
Il percorso italiano di quella che potremmo chiamare la “gestione” del problema handicap è sotto questo aspetto assolutamente significativo.
In Italia, per secoli, è prevalsa la linea della rimozione. Le persone con gravi disabilità venivano “rimosse” dalla società ed affidate ad enti caritatevoli, per lo più gestiti da religiosi. Questo è stato per moltissimi anni il destino più probabile di queste persone, ed erano quelle più fortunate. Non entrano nelle statistiche i pochissimi abbastanza ricchi da non avere problemi.
Negli anni ’70, mentre nel mondo si diffondeva il movimento per la vita indipendente, in Italia si costituirono le prime comunità, come alternativa agli istituti. La maggior parte di queste gestite da preti, alcuni “scomodi” e innovatori, oggi si direbbe di “sinistra”.. Tutte comunque basate su una assistenza fortemente legata al volontariato. Continuarono anche a nascere nuovi istituti, alcuni definiti più “moderni”.. Alcuni gestiti da organizzazioni composte prevalentemente dai genitori di persone con disabilità, come l’Aias e l’Anffass.
Insomma la rimozione si fece meno feroce ma il modello di soluzione basato sul raccogliere molte persone con disabilità nelle strutture era rimasto lo stesso. Di diritti a decidere di sé e della propria vita ancora non si parlava.
Ma a volte il destino è ben strano. Proprio dall’Aias venne il primo reale aiuto per la diffusione della Vita Indipendente in Italia. L’allora presidente, Teresa Selli Serra, sollecitata da Raffaello Belli, che è stato probabilmente il primo “motore” italiano nella promozione di queste idee, ne fu affascinata e organizzò a Roma una grande conferenza che aveva per titolo “L’assistenza personale quale chiave per una vita indipendente”.. Era il 1989. Teresa Selli Serra chiudendo la conferenza disse una frase che è rimasta celebre perché è una mirabile sintesi delle idee di libertà insite nella filosofia della Vita Indipendente. Frase che allora suscitò scandalo. Disse che con un assistente personale suo figlio avrebbe potuto anche fuggire di casa. Da allora mi chiedo se questo fosse un suo desiderio inconscio.
Quella conferenza fu il momento di lancio. Parteciparono i principali esponenti mondiali del movimento, fra cui Judy Heumann e Adolf Ratzka. Dopo un anno, a Strasburgo, nasceva ENIL (European Network on Independent Living). Dopo due anni, nel 1991, nasceva ENIL Italia, che in questo Paese è stata l’iniziativa pilota.
Probabilmente non e’ per caso che l’idea della vita indipendente viene accolta solo dopo che le persone con disabilità, nei movimenti cui hanno dato vita, sono riuscite a far crescere l’idea, la consapevolezza del proprio diritto all’esistenza, e quindi di essere persone con diritti, soprattutto a prescindere dalle famiglie. Prende forma in ciascuno la necessità di poter godere di diritti soggettivi: la coscienza del diritto individuale, di cultura anglosassone, si sostituisce al diritto famigliare tipicamente latino.
Questi anni non sono stati certo facili, gli ostacoli maggiori sono stati culturali prima che politici. Per gli operatori dell’assistenza era e per molti ancora è inconcepibile venire “scelti” dai loro assistiti. Altrettanto inconcepibile l’esigenza, per chi lo voglia, di avere assistenti personali senza formazione specifica. Scandalosa la richiesta di gestire in proprio i fondi per pagare gli assistenti personali. Ci hanno accusato di voler “monetizzare” l’handicap, di voler essere “padroni” degli assistenti, di voler precarizzare il rapporto di lavoro, di essere, insomma, praticamente degli schiavisti affamati di denaro. Purtroppo interpreti di queste visioni conservatrici sono state anche persone con disabilità.

Ma le idee, come dicevo, hanno attecchito. Al punto che, dopo alcuni risultati ottenuti in Toscana, si ha il più importante risultato con l’approvazione nel 1998 della legge 162 che per la prima volta riconosce esplicitamente il diritto ad una Vita Indipendente.
Con tutti i limiti e i rischi di cui fra poco vi dirò, la 162 costituisce un enorme salto di qualità. Ora occorre essere consapevoli che questo è stato il primo passo, quello che ha permesso di concretizzare alcune esperienze anche in Italia. E’ stato lo strumento grazie al quale si è passati finalmente dalle “chiacchiere” ai fatti.
Fatti che sono ancora pochi, è vero, troppo pochi. Sia per i pochi fondi stanziati, sia perché la legge contiene alcuni trabocchetti insidiosi, sia perché, come per la Germania, da noi la competenza primaria nel settore dell’assistenza è delle Regioni e le loro delibere attuative della 162 sono state molto diverse. Dal nulla al pessimo, con piccole eccezioni di decenza e solo pochi esempi discreti: delle Regioni Piemonte e Friuli-Venezia Giulia, della città di Venezia. Della Toscana, che è stata la prima ad accogliere progetti di vita indipendente, oggi non si hanno notizie.
Però questi fatti restano. Esistono. E stanno a dimostrare che l’alternativa alle consuetudini è possibile, è realistica, basta volerlo, chiederlo, in alcuni casi imporlo.
Le consuetudini sono una delle componenti del fronte conservatore. L’insieme delle componenti di questo fronte lo si ritrova perfettamente delineato nella definizione di “dipendenza” che dà il vocabolario:
Dipendenza: rapporto di subordinazione osservato in vari ambiti, in ossequio alla tradizione, alle circostanze o a particolari esigenze organizzative.
E’ una definizione precisa. I rifiuti che vengono opposti alle persone con disabilità si ritrovano tutti in questi tre argomenti: la tradizione (si è sempre fatto così, perché cambiare); le circostanze (la situazione di disabilità è oggettiva, occorre prenderne atto e rassegnarsi); le particolari esigenze organizzative (i servizi devono essere efficienti e non possono certo star dietro le fisime di tutti. Ci si deve adattare).
Penso che in questa definizione, si riconosca l’assoluta peculiarità della proposta del movimento per la Vita Indipendente. Scardinare i tre pilastri della tradizione, delle circostanze e delle esigenze organizzative è la battaglia per la vita indipendente. Il resto sono dettagli.
Ecco perché il movimento si chiama per la vita indipendente. Sempre nel dizionario troviamo la definizione di “indipendente” che sembra appunto il manifesto del movimento:
Indipendente: esente da rapporti che implichino il riconoscimento o l’accettazione di motivi più o meno ufficiali di subordinazione.
E’ perfetto. L’indipendenza non significa fare a meno degli altri o vivere da soli o compiere scelte di vita diverse da quelle delle persone “normali”, significa solo non essere subordinati dove non serve, significa non essere subordinati perché così si viene più facilmente gestiti in nome dei tre pilastri di cui sopra, significa avere gli stessi diritti e doveri delle persone che non hanno disabilità.
Per quanto riguarda la legge 162, in particolare l’articolo l-ter che parla di Vita Indipendente, si può accennare alle cose più rilevanti in essa contenute.
C’è scritto: “Garantire il diritto ad una Vita Indipendente” ,è un passo enorme nella legislazione nazionale sulla disabilità. Nella frase citata è però insito un grande rischio: che il termine “Vita Indipendente” venga considerato una dichiarazione di intenti, qualche cosa di vago e indefinito, e quindi di nessun valore o quasi mentre altro deve essere il punto di vista e cioè che “Vita Indipendente” è un termine tecnico che corrisponde a metodi e obiettivi ben precisi e che il suo significato non può e non deve essere eluso o minimizzato o stravolto.
Ad esempio una organizzazione di persone con disabilità della Campania, la Federhand, ha presentato una proposta di legge regionale applicativa della legge 162/98. Secondo questa proposta di legge chi vuole accedere ai fondi per la “Vita Indipendente” deve vivere da solo o con una famiglia diversa da quella di origine. In cosa consiste l’indipendenza di chi non può neppure decidere con chi abitare!
Inoltre una parola va spesa sul tabù della assunzione di propri congiunti quali assistenti personali. Secondo il movimento per la Vita Indipendente questo non è auspicabile, però non deve assolutamente essere proibito, come alcuni vorrebbero fare. Infatti oggi si scarica sulle famiglie e di solito su madri, mogli e sorelle l’onere dell’assistenza non solo non pagata, ma distruttiva delle prospettive di vita di quel famigliare, che non può evidentemente lavorare, che non potrà avere una pensione dignitosa, e di cui si sfrutta il lavoro gratuito giocando sul ricatto dell’amore che questa ha per la persona con disabilità.. A questo punto, se non vi sono soluzioni migliori, è meglio superare l’ipocrisia e riconoscere alla persona con disabilità la possibilità di assumerlo, quel famigliare, garantendogli in questo modo almeno un minimo di indipendenza economica e una dignità sociale per l’attività che svolge.
Inoltre occorre dire qualcosa sulle proposte che alcuni fanno: quelle sulla deducibilità delle spese per l’assistenza. Secondo me sono proposte pericolose e per certi versi inaccettabili.
Intanto perché le persone con disabilità hanno mediamente un reddito molto basso e quindi non si comprende come potrebbero dedurre da questo reddito la spesa per l’assistenza, spesa che può essere piuttosto alta, ed è tanto più alta tanto più è grave la disabilità, e di solito proprio chi ha la disabilità più grave ha anche il reddito più basso. Un circuito infernale.
In secondo luogo perché la prima obiezione che si sente fare dell’argomento, è che la deducibilità va ricondotta al reddito famigliare. Il che significa ancora una volta legare la vita della persona con disabilità alla propria famiglia. Cioè ancora una volta “scaricare” sulla famiglia l’onere dell’assistenza.
Infine perché se le spese per l’assistenza sono deducibili, l’altra faccia della medaglia è che il denaro che si ottiene per pagarsi l’assistenza costituisce reddito, cosa evidentemente assurda.
Il finanziamento delle spese per l’assistenza personale deve avere lo status giuridico che oggi ha l’indennità di accompagnamento: deve cioè non essere legato al reddito, né personale né famigliare, e non deve costituire reddito.
Altro paragrafo da analizzare nella 162 è quello relativo alle “funzioni essenziali della vita”.
Qui dobbiamo fare attenzione perché la disabilità permanente e la grave limitazione nell’autonomia sono legate ad una precisazione, e cioè: “nello svolgimento di una o più funzioni essenziali della vita”. Questa precisazione a mio avviso non solo è inutile, ma è anche pericolosa perché può rivelarsi una strettoia troppo angusta. Definire le funzioni essenziali della vita non è infatti cosa così semplice, e dobbiamo evitare che questa definizione riduca la vita a sopravvivenza. C’è infatti chi parla solo di funzioni primarie, da vegetale. Il respiro, il cibo, le funzioni fisiologiche di base. Come per una persona in coma profondo.
Se il legislatore accettasse questa proposta, magari in una interpretazione restrittiva, e non comprendesse nelle funzioni essenziali della vita anche il poter vivere la propria esistenza in modo autodeterminato, da un canto deriverebbe l’esclusione di molte persone dal legittimo diritto all’intervento di sostegno, e dall’altro il rischio che l’intervento potrebbe essere “di autorità” limitato al sopperire, laddove possibile, soltanto alle funzioni essenziali sopra dette. Certo è un aiuto indispensabile per chi ne ha necessità, ma limitare l’intervento alla sopravvivenza è un intervento lontanissimo dalle enunciazioni del movimento internazionale per la Vita Indipendente. E’ altro. E’ la gestione di persone che si potrebbero definire in coma civile e sociale.
Secondo me le “funzioni essenziali della vita” dovrebbero scomparire dal testo della legge, almeno in fase di applicazione, oppure, qualora ciò non fosse possibile, essere in qualche modo correlate ai diritti umani, civili economici e politici che la Repubblica riconosce avendo sottoscritto le relative convenzioni internazionali, e ai diritti che la Costituzione italiana definisce “inviolabili”. Questi diritti sono le funzioni essenziali della vita, tant’è vero che vengono definiti inviolabili e che nessuna legge può negarli o limitarli senza venire cassata dalla Corte Costituzionale. Ma approfondire questo discorso ci porterebbe lontano.
Gli ausiti tecnici
Nel testo c’è un’ulteriore precisazione a proposito della disabilità permanente: “non superabili mediante ausili tecnici”. Occorre intendersi: “non superabili” può venire interpretato in molti modi e, nel fare talune scelte, è necessaria una grande ragionevolezza, (la ragionevolezza è per altro di per sé concetto non semplicissimo nel campo del diritto). Quand’è che una funzione diventa “superabile” mediante ausili tecnici? Quando ciò sia tecnicamente possibile, a prescindere dal tempo e dalle difficoltà pratiche, oppure quando l’ausilio renda possibile svolgere certe funzioni almeno nello stesso tempo e impiegando le stesse energie che dovrebbero venire spese se il lavoro venisse fatto con l’utilizzo di un assistente personale? Ovviamente propendiamo per la seconda opzione, e dovremo essere molto attenti a che questa sia l’interpretazione accettata in sede di applicazione della norma. Qualora questa valutazione non sia possibile, secondo me l’unico criterio realistico nella scelta fra l’uso di un ausilio e di un assistente personale per svolgere una particolare funzione sta nella scelta della persona con disabilità.
Ci sono persone che sono disposte ad utilizzare ausili anche se questo comporta maggiori difficoltà pratiche perché preferiscono fare da soli il maggior numero possibile di cose, e, al contrario, ci sono persone che vogliono ottimizzare al massimo il loro tempo e quindi hanno l’esigenza di ottenere l’aiuto di volta in volta più efficiente.
Un solo esempio, forse il più provocatorio, vista la visione risolutiva e “salvifica” che i non addetti ai lavori hanno dell’informatica nel contesto handicap: per una persona con grave disabilità scrivere una lettera al computer può essere un lavoro davvero lungo e faticoso, anche se oggi vi sono programmi e dispositivi che aiutano notevolmente in questa attività. D’altra parte un assistente personale può scrivere “sotto dettatura” in modo quasi sempre più veloce e preciso. Allora la scelta del “concedere” l’uso di un assistente personale non deve essere legata solo al fatto che con un computer adattato sia possibile scrivere una lettera, ma anche a quali condizioni si costringa chi non vuole utilizzare tale ausilio, ma è costretto ad utilizzarlo perché non gli vengono offerte alternative.
Nel citato articolo di questa legge i fondi vengono definiti come: “Gestiti in forma indiretta”
Questo è il secondo grande punto di forza di questo articolo di legge: il diritto ad una Vita Indipendente si concretizza con l’autogestione dei fondi necessari per pagare gli assistenti personali (quello che in tutti gli altri Paesi si chiama “pagamento diretto” in Italia diventa “gestione in forma indiretta”. Questo è dovuto al fatto che viviamo in uno Stato in cui il centro (autonominatosi tale, e spesso autoreferenziale) non è la persona, il cittadino, bensì l’apparato burocratico. Quindi per la Legge le cose organizzate e gestite dallo Stato sono quelle dirette, mentre tutto ciò che è al di fuori del diretto controllo della Pubblica Amministrazione diventa esterno, indiretto, altro. Occorrerebbe un bel salto culturale per mettere le cose al posto giusto. In ogni caso, a prescindere dal termine usato, il riconoscimento della possibilità di una forma alternativa di gestione delle spese per l’assistenza è un risultato formidabile, soprattutto perché riconosce implicitamente alle persone con grave disabilità il diritto e la capacità di gestire al meglio la loro vita. Di questo occorre fare tesoro, bisogna difendere questo riconoscimento da ogni tentativo di riassorbimento nella prassi corrente.
Anche perché di tali tentativi si sente già parlare: c’è chi dice che la persona con disabilità può sì scegliere l’assistente, ma solo fra quelli che il Comune o la AsI hanno nel proprio organico; c’è chi dice che la gestione indiretta è “migliore” se fatta attraverso una agenzia perché non è “opportuno” che il denaro sia nelle mani di persone con disabilità. Sono idee e proposte vecchie, irrispettose, tese a conservare quanto più potere (e denaro) possibile nelle mani dei soliti noti, e fondate comunque sul pregiudizio negativo rispetto alle potenzialità e capacità di scelta che hanno le persone con disabilità.
Questi episodi richiedono una risposta forte e nitida da parte di tutti coloro che hanno a cuore la libertà e il diritto delle persone con disabilità.. Per un momento, quindi, se mi si concede questo gioco di parole, rispetto a questa legge occorre passare dal suo testo al suo contesto. Gli episodi sopra citati confermano che in Italia spesso i conservatori più accaniti sono le stesse persone con disabilità, allevate in una cultura da sudditi, addestrate nella lotta fra poveri a strappare al “potente” di turno la promessa di una briciola in più rispetto al vicino, o a scavarsi una nicchia più comoda e garantita. Non si rendono conto di quanto poco hanno e non sperano in altro che in briciole e nicchie, timorose di ogni cambiamento che potrebbe mettere a rischio il loro piccolo potere e la loro presunta sicurezza, incapaci di progetto, di idee, forse dell’idea stessa di libertà, che è tale solo se accompagnata dalla responsabilità.
Altri attori del contesto, invece, pongono il problema sotto un aspetto ideologico: sono per definizione contrari alla “monetizzazione”. Pur consapevoli che i servizi di assistenza organizzati dai Comuni e magari affidati in convenzione alle cooperative non vivono certo d’aria, e che in quegli ambiti i furti, gli sprechi e le sopraffazioni sono all’ordine del giorno (come ammettono gli stessi responsabili di quei servizi), ritengono comunque che il denaro dato alle cooperative sia “buono” mentre quello dato alle persone sia “cattivo”. Ritengono che lo Stato si debba assumere delle dirette e fattive responsabilità e che le persone in difficoltà non debbano essere “lasciate sole”.
Quello che in questi anni ci siamo sforzati di dire è che ciò che conta è la libertà di scelta delle persone con disabilità. Ci sarà chi vuole gestire senza intermediari la propria vita e quindi utilizzerà le tecniche e i concetti della Vita Indipendente, nei diversi modelli che in questa si riconoscono, e chi preferirà una vita più “semplice” lasciando ad altri il compito di organizzare i servizi di cui ha necessità.. I due sistemi non sono in contraddizione e possono benissimo coesistere. Il problema è che spesso le posizioni ideologiche somigliano a precetti religiosi, per cui alle persone che di queste posizioni si fanno portabandiera non basta comportarsi secondo le regole e la morale della loro “fede”, ma sentono l’esigenza di guidare e se possibile obbligare anche gli altri sulla “giusta” via da loro indicata. E’ insomma il discorso di chi trasforma immediatamente un legittimo punto di vista in una inaccettabile imposizione. Chi trasforma il: “io non lo farei” nel: “tu non lo devi fare”.
Anche sul termine “monetizzazione” occorre forse intendersi meglio: da sempre quella parola ha significato la mancanza di responsabilità, qualche lira per accontentare, uguale per tutti, e via. Tutto il contrario di quella che è la procedura prevista nell’articolo l-ter della 162. Infatti anche nel documento uscito dalla conferenza nazionale sulle politiche dell’handicap tenuta nel 1999 a Roma si chiarisce bene che la gestione indiretta dell’assistenza non è monetizzazione, bensì una forma diversa di erogazione del servizio, con controlli e assunzione di responsabilità sia da parte della persona con disabilità che è impegnata a rendicontazioni e verifiche, sia da parte dello Stato, che corrisponde quanto effettivamente serve caso per caso, progetto per progetto.
La legge poi detta: “Anche mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiesta”
Nella documentazione di cui parlavo prima si parla anche dei pericoli della classificazione. Oggi non ne parlo per mancanza di tempo. La legge sembra offrire una soluzione per evitare questo rischio, e tale possibilità consiste del poter “fare richiesta” di un piano personalizzato. La frase secondo me è un po’ ambigua, e avrei preferito che i soggetti potessero “presentare” un piano personalizzato, poiché non è chiaro che cosa significhi “fare richiesta” di tale piano. Significa forse che il piano personalizzato viene redatto dagli “esperti”? Significa forse che la persona con disabilità “partecipa” alla stesura di detto piano? “Presentare” un piano personalizzato è l’interpretazione che intendo promuovere, però anche qualora questa fosse accettata, nella stesura di un piano personalizzato leggo pericoli di peso non inferiore a quelli derivanti dalla classificazione. In questo caso secondo me il rischio maggiore è quello di una strisciante induzione o autoinduzione all’omologazione. Vita Indipendente, l’abbiamo detto molte volte, è vivere ciascuno a proprio modo, con il proprio stile, i propri obiettivi, i propri “valori”. E’ vivere proprio come le persone che non hanno disabilità, poter fare i loro stessi errori, poter crescere e imparare anche grazie a quegli errori. Significa anche, ad esempio, fare scelte di vita non condivise dalla maggioranza che detta la morale corrente.
Quindi mi chiedo quanto debba essere “dettagliato” il piano personalizzato previsto dall’articolo l-ter. Secondo me l’unico piano che garantisca libertà di scelta alle persone con disabilità si riduce a due parole scritte con caratteri ben marcati: “Voglio vivere!”.
Ogni dettaglio aggiuntivo che non si limiti a dire di quante ore di assistenza una persona abbia bisogno, rischia di costituire una “prova a carico” che può essere usata nel processo decisionale. Infatti dichiarare nel proprio progetto personalizzato obiettivi diversi da quelli ritenuti tradizionalmente “sani” (studio, lavoro, etc.) susciterebbe negli uffici preposti a decidere su queste domande delle reazioni diverse in base a fattori del tutto imprevedibili.
Non credo infatti che “neutralità” e rispetto delle scelte individuali siano le maggiori qualità, ad esempio, di assistenti sociali e personale sociosanitario o amministrativo. Quindi per le persone con disabilità diventerebbe esplicito ed imperativo preparare e discutere progetti “accettabili”, tutti tesi al valore della “integrazione sociale” che come movimento per la Vita Indipendente non abbiamo mai ritenuto essere fra gli obiettivi principali. Ecco quindi il rischio di omologazione indotta: “Questo progetto non va bene, se vuole che le finanziamo l’assistenza deve cambiare i suoi obiettivi”, sia di omologazione autoindotta: “Se faccio un progetto «diverso» non verrà accettato e quindi pur di ottenere l’assistenza che mi serve adeguo i miei obiettivi e lascio perdere i miei reali desideri”. Infine, come notazione di carattere generale, se una persona deve “discutere” con altri delle proprie scelte di vita si viola il suo diritto alla privacy, diritto per altro garantito da una legge.
Su questi aspetti mi sembra corretta, come esempio, l’impostazione spesso citata da Raffaello Belli sulla guida delle autovetture: “insegnare a guidare non deve diventare un alibi per indagare sul dove una persona poi andrà con la sua macchina”.
Ancora, la legge prevede che i fondi vengano erogati: “Con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficacia”
Il diritto alla privacy entra di prepotenza in gioco anche nelle ultime parole dell’articolo l-ter, dove si fa riferimento al fatto che i servizi di aiuto alla persona finanziati da questa legge devono essere verificati sia per quanto riguarda l’effettiva erogazione delle prestazioni, sia per quanto riguarda la loro efficacia. La necessità di rendicontazione sul denaro impiegato per pagare gli assistenti personali è probabilmente ragionevole solo a partire da cifre di una certa consistenza. Infatti tenere una contabilità e documentazione fiscale costa e se la cifra stanziata per i servizi è piccola, potrebbe paradossalmente non coprire neppure le spese di una rendicontazione giuridicamente riconosciuta. Anche in base a esperienze fatte in altri Paesi, nel caso in cui il budget lo consenta, la migliore rendicontazione si ottiene con una tenuta regolare dei libri paga e dei versamenti dei conseguenti contributi di previdenza e assicurazione obbligatorie. Tuttavia, al fine di evitare per quanto possibile disagi e spole fra gli uffici, la migliore soluzione secondo me consiste in una autocertificazione come atto principale di rendicontazione ordinaria, e in successivi eventuali controlli sulla documentazione depositata e conservata per un numero congruo di anni presso l’abitazione della persona con disabilità, o presso uno studio professionale o un’agenzia di servizi.
Per quanto riguarda invece la verifica dell’efficacia dei servizi attivati, l’unico strumento praticabile e rispettoso della privacy è una dichiarazione di gradimento rilasciata dalla stessa persona con disabilità che utilizza gli assistenti personali.
D’altronde, se questa persona non fosse soddisfatta della soluzione adottata, prima cercherebbe di risolvere i problemi e poi, nel caso non le riuscisse, rinuncerebbe alla gestione “indiretta” per rientrare come utente nel servizi organizzati dalle cooperative o dagli enti pubblici a ciò deputati. Dunque non si vedono ragioni così impellenti della verifica da richiedere impegni gravosi e quindi vessatori per le persone con disabilità, né particolari esigenze che possano giustificare la violazione della privacy o addirittura l’intrusione e il condizionamento delle personali scelte di vita, se non “ragioni” dettate da pregiudizio, e quindi da respingere in modo altrettanto pregiudiziale.
Come vedete la legge contiene punti pericolosi ma anche delle grandi affermazioni di diritto. Purtroppo non è un diritto esigibile. Non potete cioè “trascinare” in tribunale gli Enti che non soddisfano le vostre richieste. Su questo c’è ancora molto da fare.
Invece alcune parole vale la pena di spenderle sui modelli. La legge è neutrale su questo, dà la massima libertà di organizzazione perché non prefigura alcuna struttura o forma per la gestione della assistenza. Sono certo che la proverbiale fantasia della nostra gente saprà inventare soluzioni nuove e diverse, ed è bene che sia così. Rimangono i punti fermi enunciati dal movimento per la Vita Indipendente: è irrinunciabile che se si parla di Vita Indipendente debbano essere soddisfatte le condizioni della libera scelta su CHI ci fa l’assistenza, QUANDO ci fa l’assistenza e COME ci fa l’assistenza. Aggiungerei anche il DOVE, tanto perché non sorgano equivoci rispetto all’assistenza domiciliare.
Allora parlare di cooperative di persone con disabilità, come in Svezia, di persone libere di trovare sul libero mercato i supporti necessari, come in Gran Bretagna, o di altre forme organizzative va comunque bene.
Vi è però un aspetto secondo me irrinunciabile, e cioè che il modello non deve essere deciso da altri. Non ci deve essere il modello “unico” perché il Comune o la Regione così hanno deciso. Deve essere lasciata alla singola persona con disabilità la scelta se aggregarsi in cooperativa, se agire da “single” o se avvalersi di altri servizi, come per esempio le agenzie per la Vita Indipendente di cui ho parlato all’inizio
Occorre comunque fare attenzione anche a questo, perché il termine Vita Indipendente è di moda, è anche una legge, è anche un po’ di denaro stanziato a questo fine. E questo fa gola, quindi occorre stare attenti a come queste agenzie agiscono.
Un altro capitolo che va affrontato è quello della apertura a gestioni di tipo indiretto dei capitoli di spesa relativi all’assistenza domiciliare e alle rette per il ricovero in istituti e comunità.. Se una persona sta in queste strutture o usufruisce di questi servizi e vuole uscirne o cambiare sistema deve poter disporre della cifra che viene pagata per la sua retta e per i suoi servizi. Inoltre una persona che si trova in condizioni di dover entrare in una comunità o un istituto deve poter scegliere, se lo vuole, di poter gestire in forma indiretta il denaro che lo Stato avrebbe speso per il suo “ricovero”.
A questo proposito c’è un punto su cui occorre essere molto chiari: la consapevolezza sociale e giuridica sono molto aumentate. Le sperimentazioni che stanno avvenendo dimostrano che il sistema della gestione indiretta funziona, così come funziona da anni negli altri Paesi. Non c’era motivo per dubitarne, ma oggi c’è anche la prova. Da questo deriva una considerazione molto importante. Da questo deriva che i tre pilastri del sistema della dipendenza hanno perduto definitivamente la loro solidità. Da questo deriva che il tempo ormai è maturo per affermare che se lo Stato spende denaro non per liberare le persone, ma per imprigionarle in istituti, se lo Stato nelle sue articolazioni non consente la scelta fra ricovero e gestione degli stessi fondi in forma indiretta, se obbliga con il ricatto dell’assistenza mancata all’imprigionamento in strutture, questo Stato commette un crimine. In senso tecnico. Perseguibile. Perché viola i diritti fondamentali delle persone pur in presenza di alternative che si sono dimostrate praticabili. Perché nega i diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione anche se è stato dimostrato che è possibile fare diversamente. Questo è uno dei fronti della battaglia del prossimo futuro.
E’ anche importante tenere in mente una cosa: l’applicazione corretta dell’articolo l-ter, come è stata fatta ad esempio in Friuli Venezia Giulia, sotto forma di sperimentazione per pochi casi al fine di dimostrarne l’efficacia, deve anche costituire uno strumento per il superamento di questa fase di sperimentazione. 1 fondi stanziati sono praticamente irrilevanti, ma se vogliamo passare, tanto per fare un esempio, da uno stanziamento di 30 a uno di 300 milioni di euro all’anno, cifra che ritengo ragionevolmente adeguata per iniziare a “fare sul serio”, occorre fare tesoro di queste sperimentazioni. Occorre non commettere errori. Se saremo capaci di fare questo otterremo ascolto, altrimenti prevarranno ancora una volta gli esperti di briciole e nicchie. Sta ancora una volta a noi.
Oggi l’elenco di organizzazioni che si occupano principalmente di questo settore è nutrito: Si passa dall’associazione vita indipendente in Toscana a Consequor in Piemonte, dal comitato lombardo per la vita indipendente a diverse organizzazioni nel Veneto, di cui sicuramente la più attiva e con i maggiori successi è quella di Venezia, per finire con l’associazione IDEA del Friuli Venezia Giulia. Anche organizzazioni storicamente più consolidate, come la UILDM (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare) stanno dando il loro prezioso contributo.
Ma oggi quando dico noi penso proprio a noi. Alle persone che sono in questa sala e a quelle che si riconosceranno in questa nuova organizzazione e le daranno forza. Senza nulla togliere alle associazioni che in questi anni hanno fatto e continueranno a fare davvero molto per promuovere l’idea e l’applicazione di progetti di vita indipendente, penso che la capacità radicale di attivare e valorizzare strumenti diversi, come ad esempio la nonviolenza, e l’indiscussa capacità dimostrata negli anni di influire sull’agenda politica del Paese possano costituire il valore aggiunto indispensabile perché questa operazione dia finalmente i frutti sperati.

L’obiettivo principale dell’associazione “Luca Coscioni” resta indubbiamente la libertà di ricerca, e su questo obiettivo è opportuno e ragionevole che si investa la maggior parte delle risorse umane e materiali, ma occorre ricordare che finché la scienza non avrà scoperto la cura per le malattie terribili come la sclerosi laterale amiotrofica e altre altrettanto distruttive, le persone dovrebbero comunque nella loro vita difficile non dover sopportare anche il disagio della dipendenza, dell’attesa, dell’essere messi in un angolo perché destinati a morire, oppure, ed è forse peggio, destinati all’inutilità, cioè alla morte sociale.

 

20 dicembre 2002, Congresso Costitutivo dell’Associazione Luca Coscioni, relazione di John Fischetti