Contro i veleni industriali e politici della Basilicata

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Occhiello
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Il cartello dietro la rete recita “Benvenuti”; ancora qualche passo ed entreremo in uno dei tanti cimiteri industriali della Basilicata. Sono a Tito, nell’area ex Liquichimica. A farmi da Virgilio nell’inferno dei veleni industriali, che da troppo tempo inquinano la falda acquifera, qualcuno che conosce bene la zona. Mi piace definirlo una persona che ha un forte senso del dovere e della missione che è chiamato a svolgere. Nei rapporti della burocrazia ministeriale non c’è traccia della discarica abusiva che ci accingiamo a visitare, ma ne troviamo traccia, eccome, nel procedimento 1837/05 aperto dalla Procura della Repubblica di Potenza e dal dott. Woodcock. Penso al cartello di benvenuto e mi assale la sgradevole sensazione che si prova quando ti accorgi che qualcuno vuole prenderti per i fondelli. “Benvenuti”, “Welcome to Munnezzopoli”. La rete, lo stato di abbandono, il silenzio; sullo sfondo lo scheletro dello stabilimento; non un insetto; tutto ha l’odore sinistro della morte e della putrefazione. Difficile allontanare un senso di angoscia. Difficile non pensare ad uno sviluppo industriale che ha prodotto soprattutto veleni, furto, cassintegrati, sperpero di denaro pubblico e clientelismo. Parafrasando Rino Gaetano potremmo dire: “Anche questo è Sud”. Sembra proprio che questo piccolo spicchio d’Italia vogliano dimenticarlo tutti: una bonifica che langue; il ping-pong e il rimpallo delle responsabilità; e qualche sognatore, che ancora vorrebbe far rispettare la legge e trovare i colpevoli di una violenta ferita inferta all’ambiente, che come spada di Damocle pende sul capo di migliaia di persone e infetta l’acqua e avvelena la terra. Siamo a Tito scalo, a pochi chilometri da Potenza, capoluogo della “Lucania felix”, e a poche decine di metri in linea d’aria da Tito paese; eppure, sembra di essere in una zona di guerra, in un paese del terzo mondo eletto a discarica di rifiuti tossici. Ho detto zona di guerra, e infatti il mio accompagnatore parla di “trincee” dove sono state interrate, in teli di pvc, tonnellate e tonnellate di fanghi industriali, il tutto ricoperto con uno strato di fosfogesso. Ci caliamo nella trincea ed ho la sensazione di camminare su un materasso ad acqua, solo che sotto i nostri piedi non c’è acqua, ma veleno. Silenzio tombale. Siamo circondanti da 27000 metri quadrati di “rifiuti tossici nocivi”. E noi che pensavamo che il problema fosse rappresentato “solo” dalla trielina e da altre sostanze dal nome impronunciabile. Con ogni probabilità si tratta di rifiuti di provenienza anche extra-regionale. E’ quasi certo che qualcuno si sia arricchito facendo affari col traffico dei rifiuti. L’ennesima discarica abusiva nell’Italia delle emergenze; laddove emergenza fa rima con affari. Affari sporchi, s’intende. L’unica certezza è che il permanere di questa grave situazione di inquinamento rischia di compromettere in maniera irreversibile le falde acquifere. Intanto a Tito, dal 2005 permane un’ordinanza che vieta l’uso dell’acqua per una distanza di oltre 150 metri rispetto ai perimetri stabiliti dalla burocrazia. Chi ha avvelenato l’area ex Liquichimica non dovrebbe poter contare sulla prescrizione del reato, anche perché esso si reitera ogni giorno con un lento, ma sistematico inquinamento. Sulla vicenda tutti gli organi che sarebbero tenuti ad informare la cittadinanza preferiscono ispirare la loro azione alla riservatezza, ad iniziare dall’Arpab e passando per la Regione. Di dati ufficiali disponibili sull’inquinamento neanche a parlarne. Dei fanghi industriali di Tito, quelli occultati nell’area dell’ex Liquichimica, non c’è traccia nel verbale della “Conferenza dei servizi decisoria” tenutasi presso il Ministero dell’ambiente il 22 dicembre 2008. “Perché?”, verrebbe da chiedersi. E perché questa assenza delle Istituzioni, accompagnata spesso dall’atavica rassegnazione di chi vive seduto su una bomba ecologica? Dove sono i controlli? Dov’è l’Arpab? Dov’è la Regione? Passeggiando per le strade di Tito ci dicono che, nella zona, sono troppe le persone colpite da malattie tumorali. Siamo passati dai “Fuochi del Basento” ai veleni del Basento e del Tora. Se la peste italiana produce assenza di democrazia, legalità e Stato di diritto, qui nel mezzogiorno d’Italia l’effetto si manifesta amplificato. Nel sud delle regioni a obiettivo 1, dove migliaia di miliardi delle vecchie lire di fondi UE sono serviti soprattutto alla partitocrazia per alimentare la macchina della clientela e per ingrassare gli amici degli amici, la corruzione produce povertà, assenza di vero sviluppo e inquinamento. Non a caso nel rapporto Saet(servizio anticorruzione e trasparenza) del 2009 troviamo ai primi posti tutte le regioni del Mezzogiorno. Non a caso, nonostante il fiume di denaro piovuto con la Cassa del Mezzogiorno, Agensud e UE, la miseria dilaga e chi può scappa. In questo contesto è chiaro che i veleni che sto calpestando sono figli di un sistema che ha prodotto miseria e malaffare. Bonifica dell’ambiente. Bonifica delle Istituzioni. Occorre rigenerare la politica da veleni che la rendono incapace di offrire soluzioni, ma fin troppo capace di creare emergenze.