Il Balzan al padre delle cellule «etiche»

Viviana Daloisio

Era il 2006 quando alla ribalta della cronaca saliva un giovane scienziato giapponese, fino ad allora pressoché sconosciuto a livello internazionale. Shinya Yamanaka aveva incontrato la biologia per caso (inizialmente era un ortopedico) e forse anche per questo sotto la lente del suo microscopio prese forma un`idea tanto bizzarra da far sorridere, inizialmente, colleghi e amici: quella di non usare, per costruire cellule capaci di riparare i tessuti (le cosiddette «staminali»), embrioni umani, ricominciando invece dal principio. Ovvero dalla risorsa base, il bene più diffuso e rintracciabile, il meno problematico da un punto di vista etico: le cellule adulte. Cellule normalissime, come quelle della pelle: milioni in un piccolissimo campione di tessuto, prelevabile in poco meno d`un secondo e in maniera del tutto innocua. L`idea bizzarra, che il giapponese nel tempo record di quattro anni ha tradotto in realtà, è stata quella di "riprogrammare" quelle cellule: modificarle (grazie all`inserimento di alcuni geni specifici) in modo da farle tornare indietro nel tempo, ringiovanirle fino al punto in cui siano assolutamente comparabili a quelle embrionali. E capaci, come quelle, di trasformarsi in qualsiasi altro tipo di cellula umana. E per questa scoperta che il 19 novembre Yamanaka riceverà dalle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il Premio Balzan 2010 per la biologia. Un riconoscimento importante, e non soltanto per il prestigio. Intanto perché ai prescelti spetterà un milione di franchi svizzeri (oltre 760 mila euro), la metà dei quali dovrà essere devoluta al sostegno della ricerca. E poi, nel caso specifico di Yamanaka, per il significato che il premio riveste sul piano della bioetica. Molto si è discusso, infatti, a partire dall`annuncio del 2006 e tutte le volte che dai laboratori di Kyoto sono arrivate nuove notizie circa il metodo delle riprogrammate sulla portata reale che la scoperta ha avuto in campo scientifico. «Rivoluzionaria», come più volte è stato ripetuto ieri alla Fondazione Corriere della Sera (dove i Premi Balzan sono stati annunciati) e proprio a partire dal superamento della questione etica che tanto ha diviso il mondo della scienza e l`opinione pubblica negli ultimi anni. Perché le cellule riprogrammate innanzitutto questo hanno dimostrato: che fare scienza del futuro e pensare di poter agguantare risultati straordinari nel campo della medicina rigenerativa sono traguardi non necessariamente raggiungibili solo utilizzando, manipolando e distruggendo embrioni umani, come si è voluto far credere. Tutt`al più guardandoli passare sui vetrini dei laboratori come tante volte è successo a Yamanaka – si è scelto di non sacrificare embrioni (pur lavorando in centri di ricerca dove le cellule embrionali venivano utilizzate, e individuando i geni necessari alla sua scoperta anche attingendo alla conoscenza del loro "funzionamento"). Ebbene: i risultati sono arrivati proprio arrestandosi davanti al confine tracciato dal rispetto per la vita umana: «Ero un assistente universitario di farmacologia e lavoravo a un progetto in cui si utilizzavano anche cellule embrionali -ha raccontato Yamanaka al New York Times in una lunga intervista, nel 2007 -. Un giorno un mio amico che lavorava in un clinica di procreazione assistita mi invitò a visitarla, e mi fece guardare al microscopio un embrione. Quella vista cambiò la mia carriera scientifica. Quando vidi l`embrione, improvvisamente realizzai che c`era una piccolissima differenza tra quello e le mie due figlie. Pensai che non potevamo continuare a distruggere embrioni per la nostra ricerca. E che ci doveva essere un`altra strada». Oggi quella scelta – anche etica- sta cambiando il volto della scienza e della medicina, il metodo che ne è scaturito è utilizzato in molti laboratori del mondo. E anche l`Italia ora lo riconosce, ai massimi livelli.

 

Shinya Yamanaka scienziato "per caso" – Chi è?

Shinya Yamanaka è nato a Osaka, il 1 settembre 1961. Fosse stato un po’ più robustino da ragazzo, probabilmente non sarebbe oggi sui giornali di mezzo mondo: «Facevo rugby e judo, mi infortunavo sempre», ha raccontato lo scienziato, sguardo riflessivo e una cicatrice sul polso, souvenir di una dozzina di visite ambulatoriali dopo altrettanti placcaggi finiti male. “C’era un ortopedico sempre gentile e attento con me, così pensai di diventare ortopedico come lui. Missione compiuta, ma con un crescente senso di insoddisfazione: -Mi sentivo bloccato… Volevo fuggire. Anche qui fuga riuscita, prima scegliendo come specializzazione la farmacologia, poi, dopo aver letto un articolo sui topi "knock-out" (i ratti geneticamente modificati che hanno meritato il Nobel a Mario Capecchi), inviando una cinquantina di curricula in giro per il mondo. Fino all’ingresso nel Gladstone lnstitute di San Francisco, nel 1993. Di lì una carriera tra casualità e dedizione, simile a quella di migliaia di altri ricercatori. Una cattedra a Kyoto, una di anatomia a San Francisco, fino all’annuncio nel 2006 della riuscita riprogrammazione delle cellule del topo, che gli ha aperto la porta all’olimpo del mondo scientifico.
 

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