Mentre il confronto parlamentare sulla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento il testo Calabrò sulle Dat – continua a ruotare soprattutto intorno a idratazione e alimentazione artificiale, e alla vincolatività delle Dat per i medici, il dibattito pubblico sul fine vita si sta sviluppando attorno a un uso nuovo di vecchie parole insieme a nuove espressioni che ben descrivono il cambiamento culturale in corso.
«Morte medicalmente assistita», ad esempio, è una frase entrata da tempo nel lessico degli addetti ai lavori: è pure il titolo di un libro edito dalla Cambridge University Press dello scorso anno, a cura di Robert Young, filosofo dell’Università di Melbourne, Australia. La tesi centrale è che ci sono buoni motivi per legalizzare il suicidio assistito e l’eutanasia volontaria, mentre quella non volontaria non sarebbe giustificabile. Gran parte del testo tratta i problemi di tipo giuridico e morale che sorgono quando chi chiede di morire vuole essere aiutato da un dottore: da qui il titolo del libro. La fine della vita, se avviene su richiesta e anche confortata dall’assistenza medica, suona meno minacciosa rispetto all’idea di eutanasia o di suicidio, sinonimi di morti solitarie, accompagnate spesso solo da grandi sofferenze fisiche e psicologiche: avere un medico accanto che "assiste" quando si vuole farla finita è indubbiamente più rassicurante.
E se la morte è "medicalmente assistita", ci si può ragionevolmente aspettare che sia un servizio accessibile nell’ambito dell’organizzazione sanitaria. Anche la contrapposizione fra «vita biologica» e «vita biografica» è stata ampiamente utilizzata: ne parla, fra gli altri, Giorgio Cosmacini, nel suo Testamento biologico, da poco edito da Il Mulino. In mezzo ad argomentazioni confuse e pagine assai discutibili, (come quella in cui scrive che «si può affermare però che tale stato "vegetativo" o "botanico" non è umano o non è sufficiente per l’esistenza di una persona»), l’autore spiega la differenza fra la mera sopravvivenza dell’organismo – la vita biologica, appunto – e la vita biografica della persona, quella legata cioè alle esperienze consapevoli del vissuto, «una vita da narrare». Con queste premesse, quelle di Welby ed Eluana sono definite vite biografiche «impedite» da patologie senza speranza: il rispetto e la pietas per chi si trova in queste condizioni – secondo Cosmacini – suggerirebbe di interrompere la loro vita biologica. In altre parole: se una vita è solo «biologica», allora è incompiuta, inconsapevole, una non-vita, insomma, e interromperla suona meno gravoso che «uccidere», o anche «sottoporre a eutanasia» una persona, sia pure per pietà.
Ma se cambiare il linguaggio per rendere lecito l’inaccettabile è un vecchio trucco, tipico dei regimi totalitari, cancellare completamente dal vocabolario le parole scomode è una provocazione da non sottovalutare: nell’ultimo numero del Canadian Medical Association Journal, un editoriale propone di non usare più la parola «eutanasia» (ne riferiamo in questa stessa pagina): «I medici possono smettere di usare la parola eutanasia per descrivere le azioni da intraprendere per aiutare i pazienti a morire, e anche smettere di usare termini carichi di valore come morire di fame e uccidere per spiegare quelle azioni mediche». Insomma, se il fine ultimo di tante battaglie, che portano altri nomi, è proprio la legalizzazione dell’eutanasia, ma se questa parola è troppo ingombrante e poco digeribile dall’opinione pubblica, allora uccidiamo l’eutanasia – o meglio, diamole la dolce morte, come suggerisce l’editoriale – e il problema è risolto.
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