Medicina “personalizzata”: a ogni malato la propria cura

RICERCASe c’è una caratteristica comune della ricerca medica degli ultimi decenni, destinata a crescere in quelli futuri, questa si chiama personalizzazione delle cure. Incoraggiate dai progressi compiuti dalla genetica, che ha spiegato almeno in parte il diverso manifestarsi delle stesse malattie e la differente risposta alle medesime cure, le varie branche della disciplina stanno puntando all’obiettivo di costruire una terapia a misura di paziente.

Oncologia, ematologia, gastroenterologia, reumatologia, immunologia – per fare solo alcuni esempi – con l’aiuto di tecnologie sempre più sofisticate (dalla diagnostica per immagini alla chirurgia robotica) sono da tempo indirizzate a modellare i protocolli terapeutici per venire incontro alle necessità del singolo malato.
Dna importante e anche l’ambiente
Tuttavia, avverte il genetista Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Istituto Mendel di Roma, va ricordato che «se è emerso che quasi tutte le malattie hanno una base genetica, i progressi di tale scienza sono stati straordinari in quelle patologie (come le distrofie o la talassemia) dove la mutazione di un solo gene è la causa principale. La maggioranza delle malattie è invece causata da caratteri complessi: per le patologie autoimmuni, l’osteoporosi o l’ipertensione, quel che si vorrebbe capire si concentra in famiglie di geni. Il peso della genetica c’è – soprattutto in tema di predisposizione alle malattie – ma occorre evitare di prendere abbagli: l’ambiente conta ancora di più. Come dimostra il fatto che i gemelli omozigoti (cioè identici per Dna) si diversificano tra loro con il passare degli anni». «Certamente – aggiunge Dallapiccolala scoperta delle basi biologiche delle malattie sta aiutando la ricerca di terapie che siano in grado di modificare le alterazioni, per esempio somministrando proteine che non funzionano. In questo modo sono stati messi a punto farmaci per 350 malattie rare, ma moltissime altre non hanno ancora cure».

I nuovi farmaci «biotecnologici»
Le caratteristiche genetiche già rendono possibile personalizzare le cure in reumatologia, spiega Carlomaurizio Montecucco, direttore al Policlinico San Matteo di Pavia. «Il maggior sviluppo di novità terapeutiche ha riguardato l’artrite reumatoide (e poi altre malattie a cascata), patologia caratterizzata dall’infiammazione e dalla successiva distruzione delle articolazioni. La personalizzazione del trattamento è fondamentale perché la malattia è complessa e ci sono profonde differenze tra i pazienti. Quello che è decisivo – osserva Montecucco, presidente della Società italiana di Reumatologia – è giungere precocemente a una diagnosi accurata, che permetta di individuare le forme più aggressive, per le quali si deve rapidamente giungere ai farmaci più innovativi. Anche perché i danni causati alle articolazioni non possono essere riparati». Ecco, quindi, che al methotrexate, il farmaco tradizionale utilizzato da solo o in associazione, si può passare ai nuovi farmaci "biologici": «In realtà si dovrebbero definire biotecnologici – puntualizza Montecucco -, sono stati sviluppati negli ultimi vent’anni e sono nella pratica clinica da circa un decennio: dagli anti TNF-alfa (proteina che provoca l`infiammazione) ad altri contro alcuni tipi di linfociti, fino ai più recenti, efficaci anche contro altre molecole».
Tumori, migliora la qualità della vita
Lo stesso discorso vale per l’oncologia ginecologica. «E’ ormai chiaro – conferma Giovanni Scambia, direttore del Dipartimento per la tutela della salute della donna e della vita nascente presso il Policlinico Gemelli di Roma – che non tutti i tumori dell’ovaio o della mammella sono uguali. E la scoperta di geni coinvolti nell’insorgenza di alcuni di questi tumori di tipo familiare ci permette un’attività di controllo e diagnosi precoce delle donne a rischio. Inoltre, sono disponibili nuovi farmaci con attività sempre più mirata sui tumori dell`ovaio e della mammella, risparmiando le cellule sane». Un’ottica di salvaguardia della qualità della vita che caratterizza ormai tutte le cure: «Anche grazie al progresso delle tecnologie si è molto migliorato l’approccio chirurgico, con interventi mininvasivi che sfruttano un singolo accesso (per esempio all’ombelico) per asportare tumori di utero e ovaio. E i robot chirurgici

Laparoscopia ormai di routine
Un campo – quello tecnologico – di cui è esperto Guido Costamagna, direttore del Centro di endoscopia digestiva del Policlinico Gemelli di Roma: «L evoluzione tecnologica ha prodotto endoscopi sempre più miniaturizzati fino alla capsula che viene ingerita dal paziente e fornisce immagini non solo dell’intestino ma anche del colon, dell’esofago e dello stomaco, e che progressivamente sostituirà tecniche invasive come la colonscopia e la gastroscopia. Grande aiuto ci viene dalle tecniche di analisi dell’immagine, ad altissima risoluzione, che permettono di rilevare alterazioni precocissime a rischio di degenerazione neoplastica (una sorta di istologia virtuale) e quindi di intervenire precocemente». La personalizzazione degli interventi viaggia anche attraverso i progressi delle tecniche chirurgiche: da anni ormai si è passati a preferire agli interventi ad addome aperto quelli in laparoscopia, e ora si punta a "sfruttare" gli orifizi naturali del corpo umano per inserire minuscole sonde eco-endoscopiche: «Gli endoscopi con guida ecografica – aggiunge Costamagna, che è anche presidente della Società europea di endoscopia digestiva- permettono di operare non solo per le patologie gastrointestinali, ma anche su organi esterni all’apparato digestivo. Ci si avvicina attraverso lo stomaco, l’esofago o i bronchi e si "punge" in corrispondenza dell’organo da raggiungere: fegato, pancreas, surrene o linfonodi del torace. E già stata effettuata in tal modo nell’uomo l’asportazione della cistifellea, ma altre tecniche sono in sperimentazione su animali». Grazie a queste tecniche mininvasive si possono operare pazienti che non sopporterebbero (magari perché cardiopatici) un intervento tradizionale.
Le leucemie ora fanno meno paura
Anche in oncoematologia, la terapia "ritagliata" sul paziente è la frontiera: «Nell`ultimo ventennio sono stati fatti passi avanti – spiega l’ematologo Sante Tura, già direttore all’ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna -, suddividendo i pazienti con la stessa malattia (leucemia acuta, cronica, linfomi, mielomi) in sottogruppi che beneficiavano di terapie diverse. Tra le leucemie croniche, sono state identificate quelle causate da un’alterazione di alcuni cromosomi: ebbene, dal 2000, questo sottogruppo di pazienti è stato curato con un farmaco che elimina selettivamente i cromosomi alterati con il risultato di portare la percentuale di pazienti viventi fino a 5 anni dall’inizio della malattia, dal 30% al 90%. Molti di questi forse sono guariti». Ora la ricerca tenta di «identificare l’attività di alcuni geni delle cellule leucemiche i quali controllano l’efficacia o meno di alcuni farmaci anti tumorali. Sulla base di queste conoscenze, oggi possibili, si sviluppa la "terapia ritagliata" per ogni singolo paziente».

Terapie cellulari con le staminali
Di terapie cellulari, forse l’esempio più noto – insieme ai trapianti di organo – di personalizzazione delle terapia (che deve davvero essere compatibile col paziente) riferisce l’immunologo Lorenzo Moretta, direttore scientifico dell’Istituto Gaslini di Genova: «Le cellule staminali possono avere scopo rigenerativo o curativo. Nel primo gruppo, i tentativi già avanzati di rigenerare la cute, o un osso o una cartilagine. I trapianti di cellule staminali emopoietiche hanno lo scopo sia di rigenerare il midollo osseo distrutto da chemio o radioterapia nei malati di leucemie, sia quello curativo di eliminare le cellule leucemiche, grazie all’azione dei linfociti T del donatore. Negli ultimi vent’anni poi, sono state utilizzate anche le cellule staminali presenti nel sangue del cordone ombelicale e – più recentemente – nel sangue periferico. Un altro tipo di trapianto è quello sviluppato dal gruppo di Martelli a Perugia: per i malati delle forme più aggressive, che non hanno donatore compatibile, si può ricorrere al trapianto aploidentico (cioè identico a metà) con il midollo osseo di un genitore – spiega ancora Moretta -. Si eliminano i linfociti T e si sfruttano ai fini terapeutici le cellule NK, la cui azione sui recettori KIR è stata identificata dal nostro gruppo di ricerca. I risultati in termini di sopravvivenza sono più che incoraggianti». Efficace nel combattere la leucemia nei bambini, il sangue del cordone ombelicale è solitamente insufficiente per i pazienti adulti. Una nuova tecnica per allargare il cerchio dei beneficiari di questa preziosa risorsa biologica – generosamente donata dalle mamme al momento del parto – è stata studiata e perfezionata da Francesco Frassoni, direttore del Centro cellule staminali e terapia cellulare dell’ospedale San Martino di Genova: si tratta del trapianto di cellule staminali del cordone direttamente nell’osso del paziente. La pubblicazione lo scorso anno su Lancet Oncology della prima casistica di 32 pazienti con risultati incoraggianti ha rappresentato un punto fermo, ma «a oggi sono stati trapiantati con questa tecnica più di 80 pazienti a Genova – aggiunge Frassoni – e altri centri in Italia e in Europa hanno cominciato ad usarla». In virtù di questi successi, molti più pazienti adulti malati di leucemia possono sperare in un trapianto utilizzando unità di sangue cordonale. In pratica, «oltre il 90% degli individui che cominciano una ricerca per un trapianto con cellule di cordone ombelicale trovano unità cordonali adeguate per effettuarlo». «E noto da studi sugli animali – continua Frassoni – che con l’iniezione via endovena solo il 10% delle cellule inoculate raggiunge il midollo osseo. D’altra parte il trapianto di cellule di cordone ombelicale ha il vantaggio di avere tempi di realizzazioni brevi. Esiste infatti una rete internazionale (NETCORD) cui accedere per la ricerca di sacche già bancate e disponibili. La tecnica del trapianto intra-osseo consente di fare attecchire, in pazienti adulti, cordoni ombelicali con un numero ridotto di cellule e con incompatibilità fino a 2 su 6 antigeni HLA (il sistema umano di compatibilità)». E da una prima analisi «sembra che la incidenza della malattia trapianto verso ospite (una grave complicanza del trapianto) sia ridotta e che la possibilità di ricadere nella malattia originaria sia molto contenuta; ma per entrambe le promesse – osserva Frassoni – occorre una casistica più grande per una conferma».