Tre anni. Respira da solo, male speranze di un risveglio sono nulle. In un Paese in cui tra laici e religiosi è guerra permanente, la bioetica non provoca lacerazioni. Per Arik, l’unica contesa è sul letto d’ospedale.
Sono passati più di tre anni dal giorno in cui un’emorragia celebrale ha ridotto Ariel Sharon in uno stato di coma permanente. Da allora l’ex primo ministro israeliano giace in un letto di ospedale: respira senza l’aiuto di macchinari, ma i medici dicono che le speranze di un suo risveglio sono pressoché nulle. La famiglia non vuole interrompere la sua permanenza ospedaliera, anche contro il parere della struttura. Ma la questione non ha catalizzato più di tanto l’attenzione dei media israeliani: nessun caso alla Terry Schiavo, alla Eluana Englaro, alla Piergiorgio Welby.
In un primo momento, quando ancora si sperava che "il vecchio generale" (come lo chiamano da queste parti) potesse farcela, c’era anche una questione politica: quando dichiarare il premier incapacitato? Quando e se destituirlo dalla carica? Ma adesso è una vicenda privata, che riguarda la famiglia e gli amici più intimi. «La questione Sharon non è una questione tout court», dice al Riformista David Satran, docente di religioni comparate all’Università ebraica di Gerusalemme. «C’è poco da dire. Certamente qui non è un big deal come lo sarebbe in un Paese cattolico». «Perché la gente dovrebbe impicciarsi? Sharon non è più un leader politico», risponde sullo stesso tono Jeffrey Macy, esperto di religione e politica dello stesso ateneo. Perché in Israele le questioni di bioetica non suscitano lo stesso dibattito infuocato che hanno prodotto in Italia e negli Stati Uniti? E pensare che questo è un Paese in cui i conflitti tra laici e religiosi sono forti più che mai: negli ultimi giorni, per fare un esempio, nella capitale ci sono stati scontri violenti tra gruppi di ultra-ortodossi e la polizia per l’apertura di un grande negozio durante il Sabato (giornata in cui la religione ebraica prescrive il riposo). Cionondimeno la Knesset, il parlamento unicamerale di Gerusalemme, nel dicembre del 2005 ha approvato senza incontrare troppi problemi una legge che stabiliva le modalità per interrompere il sostegno artificiale alla vita di pazienti senza speranze di guarigione.
La legge impone il rispetto di volontà scritte (una specie di testamento biologico) dello stesso paziente in caso non sia più in grado di intendere e di volere, e inoltre obbliga i medici a discutere con i malati terminali fino a che punto intendano spingersi. Sempre secondo la legge un paziente ha il diritto, se lo desidera, di andare avanti con i trattamenti indipendentemente dall’aspettativa di vita. Infine se i familiari o lo stesso paziente dovessero decidere di "staccare la spina", il compito deve essere affidato a un timer automatico, in modo da non gravare sulle coscienze di medici e infermieri e di non essere in conflitto con il diritto rabbinico. In altre parole, massimo rispetto delle volontà individuali, una combinazione che ha messo d’accordo laici e religiosi, in un Paese in cui difficilmente le due categorie la vedono allo stesso modo: «Israele è il primo paese in cui elementi laici e religiosi sono riusciti a produrre un documento condivisibile virtualmente da tutte le parti, sul trattamento dei malati terminali», aveva commentato Michael Barilan, docente di medicina all’Università di Tel Aviv, sul quotidiano Yediot Ahronot all’indomani del voto in parlamento. Solamente i partiti ultra-ortodossi si erano opposti alla legge. Ma perché le grandi questioni di bioetica suscitano meno trambusto tra gli ultra-ortodossi israeliani, rispetto a questioni apparentemente più banali, come l’apertura di un negozio durante il sabato? Una spiegazione possibile è che non esiste un’unica regola accettata sull’argomento.
Tutti i rabbini invece concordano sulla necessità di rispettare il riposo sabbatico, anche se la stragrande maggioranza condanna i fanatici che per salvaguardarlo tirano pietre contro la polizia. A differenza del Cattolicesimo, l’Ebraismo non riconosce alcuna autorità suprema, senza contare che le questioni bioetiche sono assai complesse e che gli ultimi progressi della medicina rendono difficile rifarsi ai testi antichi: «Quando una persona è viva? Quando è morta? A che punto un intervento diventa inappropriato? Sono tutte domande che non hanno più una risposta netta nel mondo moderno», aveva dichiarato un rabbino esperto di bioetica, Noatn Zohar, proprio in occasione della malattia di Sharon. Per esempio i rabbini sono divisi su come classificare l’utilizzo dei respiratori artificiali: secondo un’opinione diffusa tra i dottori del diritto religioso, è vietato interrompere le cure o accelerare l’agonia di un moribondo, ma è consentito rimuover gli «ostacoli irragionevoli» alla morte naturale. Un respiratore è un ostacolo irragionevole? Ogni rabbino ha una risposta diversa. Tornando al caso di Sharon, l’unica questione legale che si pone è se possa rimanere o meno in ospedale. Lo scorso febbraio l’ospedale di Tel Ha-Shomer, che ospita l’ex primo ministro, aveva chiesto ai due figli di Sharon. Omri e Gi- lad, di riportarlo a casa: ormai non ci sono più speranze di migliorare le sue condizioni, è stata la spiegazione, si possono somministrare soltanto le cure di routine, che possono essere effettuate anche a domicilio. La struttura ospedaliera avrebbe avanzato la richiesta onde liberare la stanza nel reparto di Rieducazione respiratoria, uno dei migliori in Israele, in previsione che possa servire ad altri. Omri e Gilad Sharon hanno rifiutato di trasferire il padre: temono che, in caso di peggioramento improvviso delle sue condizioni, a casa sarebbe più difficile salvargli la vita.