Anticipiamo in esclusiva lo speciale sulla Peste Lombarda, l’intreccio religione – politica – affari creato da Formigoni in Lombardia, pubblicato nell’ultimo numero di Agenda Coscioni.
Il movimento fondato da Don Giussani non è più una semplice associazione cattolica. I membri di CL, gli "Amici del movimento" stringono tra loro un patto di amicizia. La Lombardia è legata a una cerchia ristretta di potere e amiciczie.
Introduzione – Roberto Formigoni è l’Amico degli Amici del Movimento. Il Movimento, ecclesiale e fondamentalista, si chiama Comunione e Liberazione (CL). Comunione e Liberazione è sinonimo di Potere. Formigoni e CL guidano la Regione Lombardia ininterrottamente dal 1995.
L’Istituzione lombarda è sinonimo di Formigoni. Il presidente della regione più forte – economicamente parlando – del nostro paese, ha costruito nell’arco di questi anni un sistema clientelare basato sul trinomio Religione-politica-affari, ponendo le fondamenta di una discriminazione tra coloro che sono parte di questo sistema e coloro che non ne sono parte o più semplicemente non l’accettano. Tutto questo è stato possibile grazie a CL.
Il movimento fondato da don Giussani non è più una semplice associazione cattolica. I membri di CL, gli “Amici del Movimento”, stringono tra loro un patto di amicizia sulla base delle loro convinzioni etico-religiose. Molti del Movimento scelgono di privilegiare la natura di questi rapporti nei vari settori della società indipendentemente dai meriti del singolo. La coesione interna al Movimento è fortissima. CL “segue” l’adepto dalla scuola, all’università e poi nel mondo del lavoro. In Lombardia vi sono maggiori opportunità di successo per chi sposa le idee cielline.
Il potere di nomina della Regione e la natura delle relazioni cui si è appena accennato fanno sì che la Sanità lombarda e altri settori pubblici siano in mano agli “Amici del Movimento”. Comunicazione e media, la Fiera, le ferrovie, il no profit, la somministrazione di lavoro temporaneo e non, i servizi universitari sono altri ambiti, sia pubblici che privati, dove il ruolo ciellino in Lombardia è dominante. La Compagnia delle Opere, un’articolazione del potere ciellino a cui aderiscono migliaia di aziende, nonostante i richiami alla libera concorrenza, non disdegna di ricevere finanziamenti pubblici.
Insomma, un movimento ecclesiale numericamente esiguo ha in mano una Regione.
Perfino alcuni esponenti di Forza Italia – principale riferimento partitico di CL – tra i quali Guido Podestà, Francesco Fiori e Ombretta Colli hanno sostenuto che «Il ruolo e il potere che hanno assunto Formigoni e il sistema connesso di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere determinano la quasi totalità delle scelte politiche e amministrative, a fronte di un peso elettorale che non raggiunge un decimo dei voti di Forza Italia» (Corriere della Sera, 7.6.2005). Il sistema esclusivo e quasi monopolistico creato da Formigoni & Co. viene gestito attraverso assessorati, nomine di esponenti ciellini alla direzione o nei consigli di amministrazione di aziende pubbliche, in special modo sanitarie, assegnazione di fondi ad associazioni no profit vicine a CL e alla Compagnia delle Opere o ad imprese private ad essa collegate. Un pericoloso connubio tra pubblico e privato in nome del principio di sussidiarietà, parola d’ordine e mantra ciellino. Tutto questo è possibile grazie anche al silenzio dei media, collusi con CL. Un sistema clientelare che gestisce la cosa pubblica, consolidato da una diffusa abilità tra gli uomini di Formigoni, capaci anche di distribuire fette di potere, rigorosamente minoritarie, ad altre lobbies.
L’intervento sui diritti individuali – Un tentativo in corso da parte del governatore è quello di intervenire nella sfera delle scelte dell’individuo condizionandone gli effettivi diritti, appropriandosi di un ruolo che la legislazione non gli affida.
Molte iniziative ciellino-formigoniane hanno creato o rischiano di creare una ‘fattispecie incostituzionale’, laddove alcuni diritti individuali basilari differiscono tra la Lombardia e il resto del territorio nazionale. Si configura una discriminazione a scapito di alcuni cittadini italiani in relazione a libertà individuali fondamentali.
Così è stato per il caso Englaro, per i consultori privati accreditati, per le linee guida sulla legge 40, per vari interventi sull’applicazione della 194, per l’obiezione di coscienza, per il finanziamento ai CAV (Centri Aiuto alla Vita) e per la pillola del giorno dopo.
Insomma, Formigoni riferendosi impropriamente alla revisione del titolo V della Costituzione, interferisce con materie di competenza esclusiva dello Stato. E’utile ricordare che l’articolo 117 della Costituzione (parte appunto del capitolo V) attribuisce allo Stato la tutela della potestà in materia di salute in quanto materia di legislazione concorrente che, per la determinazione dei princìpi fondamentali, è riservata alla legislazione dello Stato. La legge 194, poi, non lascia certo spazio ad interventi di stampo amministrativo, insomma il libero arbitrio regionale è illegittimo.
Il Caso Englaro – Il 13 novembre 2008, a seguito del pronunciamento della Corte di Cassazione che consentiva di fatto l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione ad Eluana Englaro, da 17 anni in stato vegetativo, Roberto Formigoni dichiarava “la Corte di Cassazione introduce in Italia la condanna a morte. Da oggi la vita umana non è più adeguatamente tutelata nella patria del diritto. E’ soggetta ad arbitri. Si tratta di una sentenza inaccettabile” e continuava “in Italia si introduce l’eutanasia (…)”. L’assessore regionale alla Famiglia e Solidarietà Sociale Guido Boscagli commentava “Di fronte a una sentenza, che considero ingiusta non posso che ribadire che ci sono valori, come l’intangibilità della vita umana, che neanche un tribunale può mettere in discussione”.
Cinque giorni dopo, Formigoni si permetteva di affermare che i medici e le strutture della regione non avrebbero tenuto conto della sentenza pro-Eluana. Il governatore lombardo aveva dichiarato che le strutture della Lombardia sarebbero rimaste indisponibili a togliere il sondino dell’alimentazione a Eluana Englaro, intimando ai medici della regione di non dare esecuzione a un diritto sancito da una sentenza, anche se una struttura fosse stata attrezzata a farlo e anche se il personale fosse stato disponibile. Inutile la sentenza della Cassazione.
A seguito di una istanza di Beppino Englaro, padre di Eluana, il direttore generale della Sanità della Regione Lombardia Carlo Lucchina aveva formulato così la sua risposta ufficiale il 3 settembre 2008: “Il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del paziente: verrebbe meno ai suoi obblighi professionali e di servizio. La richiesta da Lei avanzata – si legge nella lettera – non può essere esaudita in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti. In tali strutture, hospice compresi, deve inoltre essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone”.
Visto il monopolio ciellino nelle cariche di direttori generali e sanitari, e di conseguenza tra i primari, i medici lombardi non hanno potuto far altro che cedere al ricatto della Regione.
Beppino Englaro ha fatto ricorso al TAR e il 26 gennaio 2009 i giudici del Tar si pronunciavano dandogli di nuovo ragione: «Il diritto costituzionale di rifiutare le cure, come descritto dalla Suprema Corte, è un diritto di libertà assoluto, il cui dovere di rispetto si impone erga omnes, nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura, non importa se operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata. (…) Conformandosi alla presente sentenza l’amministrazione sanitaria, in ossequio ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, dovrà indicare la struttura sanitaria dotata di requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi tali da renderla "confacente" agli interventi e alle prestazioni strumentali all’esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure, onde evitare all’ammalata (ovvero al tutore e curatore di lei) di indagare in prima persona quale struttura sanitaria sia meglio equipaggiata al riguardo». “La Regione” commentava il legale della famiglia Englaro Vittorio Angiolini, «dovrà indicare una struttura sanitaria idonea, dove eseguire il decreto che dispone l’interruzione dell’idratazione e alimentazione forzata per Eluana Englaro. Lo stabilisce la sentenza del Tar, che ha accolto in pieno le nostre richieste», mentre il presidente della Regione Lombradia Roberto Formigoni si apprestava a dichiarare “strabiliante pretendere di deliberare sulla vita e la morte di una persona per via amministrativa, facendo così dipendere una decisione tanto drammatica da un rapporto tra pubbliche amministrazioni, mentre, ai sensi stessi della Costituzione, i diritti fondamentali, tra cui quello alla vita, sono indisponibili. Non sono cioè alla mercè di nessun tribunale. La legge attribuisce alle Regioni, tramite il servizio sanitario, il compito di assistere e curare le persone con lo scopo di guarirle. Non posso accettare che la magistratura ci attribuisca un altro compito, quello di togliere la vita”.
Il Ministro Sacconi emanava poi una circolare ministeriale per impedire che una sentenza avesse il suo corso. La gerarchia delle fonti del diritto veniva ribaltata. Dunque anche Roma veniva raggiunta dal virus lombardo, Sacconi raccoglieva da Formigoni il testimone dell’autoritarismo e intimava così ai medici di tutta Italia di non rispettare le leggi dello Stato.
Formigolandia nel caso Englaro si è posta ancora una volta fuorilegge. Sprezzante e indifferente verso le sentenze della magistratura. Ancora una volta la Regione di Formigoni ha ostacolato decisioni dello Stato che riguardano i diritti individuali di base e non sono certo competenza né di un qualunque assessore locale alla sanità né del suo presidente. In conclusione, se le altre regioni si fossero comportate come la Regione Lombardia, il corpo di Eluana Englaro sarebbe tuttora in stato vegetativo, contro la sua volontà.
Attuazione della Legge 194 – Formigoni ha ritenuto di emanare delle indicazioni sull’attuazione della legge 194 – atto di indirizzo per la attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194 "norme per la tutela sociale della maternita’ e sull’interruzione volontaria della gravidanza (22-1-2008) – contando sul fatto che sono sufficienti delle decisioni non vincolanti della Regione per porre i medici in una condizione di sostanziale ricatto: i medici, per non compromettere il loro percorso professionale, non potranno far altro che seguire tali indicazioni indipendentemente dalla legislazione nazionale.
La legge 194 all’art.6 non prevede limiti all’aborto terapeutico, il Ministero, nelle linee guida emanate, parla di 22 settimane più 6 giorni. La Regione Lombardia risponde con delle propagandiste indicazioni di 22 settimane più 3 giorni, ponendosi ancora una volta al di fuori della legge. Ci sarebbe bisogno di ben altro in realtà: nelle strutture ospedaliere la diagnosi prenatale si dovrebbe anticipare e l’ecografia morfologica dovrebbe essere prevista a 19 settimane per dare un tempo sufficiente alla donna di prendere la propria decisione.
Un caso emblematico dell’effetto del predominio ciellino nella sanità è quello del Comitato Etico dell’ospedale milanese San Paolo, organismo ‘politico’ evidentemente all’oscuro delle conoscenze scientifiche, che aveva spostato il limite alle 21 settimane. Ricordando che il medico resta libero in scienza e coscienza di prendere la decisione che ritiene opportuna, tutelata dalla 194, in quei giorni ci siamo chiesti cosa sarebbe accaduto al San Paolo a una donna in gravidanza da 21 settimane e 3 o 4 giorni con un feto malformato e la sua salute psicologica a rischio, tenendo conto che a quello stadio di sviluppo il feto ha zero possibilità di vita autonoma. Sarebbe stata invitata a proseguire nella sua ricerca in altre strutture ospedaliere? Ricordiamo che in Lombardia la stragrande maggioranza degli ospedali non effettuano l’aborto dopo il 90esimo giorno e molti altri non lo prevedono neanche nei primi 3 mesi (esempio: H S. Raffaele, H S. Giuseppe-Fatebenefratelli e H S.Pio X). Quella del San Paolo è stata in tutta evidenza una decisione punitiva nei confronti delle donne che fanno la diagnosi prenatale.
Un altro punto del decreto ciellino comporta un ulteriore consistente ostacolo per la donna che scelga la strada dell’IVG: all’articolo 7 del decreto si dice che il certificato per l’IVG dopo i primi 90 giorni (cosiddetto aborto terapeutico) deve essere redatto da almeno 2 medici ginecologi.
Sorge un dubbio: ma la Regione si ricorda di tutti quegli ospedali che hanno zero (con “gettonista”), o un solo “non obiettore”? Ma in questi ospedali la seconda firma chi la mette?
C’è una legge in Italia, è la 194, non è perfetta, va migliorata ma è in vigore, anche per la Lombardia. All’articolo 7 della 194 (non l’art.7 del decreto propaganda) si afferma: “I processi patologici che configurino i casi (…) vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento, che ne certifica l’esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti”. Ecco, il trucco è svelato, la 194 non si tocca ma si invita a non rispettarla.
Da una ricerca effettuata dalla Associazione Enzo Tortora-Radicali Milano del 2006, emerge che gli ospedali lombardi che nel 2006 fornivano il servizio IVG con solo 1 o 2 ginecologi non obiettori erano 17, mentre quelli che fornivano il servizio solo con ginecologo gettonista addirittura 12.
L’atto di indirizzo riserva un’altra sorpresa: “Per quanto attiene inoltre l’articolo 6 (della legge 194) (…). Numerose evidenze dimostrano che il maggior supporto alle famiglie con a carico bambini portatori di handicap è dato dalle Associazioni di Genitori di bambini affetti dalle medesime patologie. La presenza di queste associazioni nei luoghi pubblici e l’interazione tra le associazioni dei genitori e gli operatori sanitari che si occupano di Diagnosi Prenatale è uno strumento utile per il sostegno globale alle coppie che si trovano ad affrontare il percorso di una gravidanza complicata da una malformazione fetale. La Regione promuove ed auspica l’accoglienza negli ospedali delle Associazioni dei Genitori, negli spazi già definiti per le Associazioni dei Malati e facilita affinché questo si realizzi negli ospedali di 3° livello dove sono presenti i Centri di Diagnosi Prenatale”. La Regione in sostanza ci dice che è opportuno che se a seguito di una diagnosi prenatale una coppia venga a conoscenza di gravi malformazioni del feto, trovandosi dunque in una situazione psicologica difficile, questa venga invitata ad incontrare già in ospedale, i genitori di bambini con handicap che quindi non hanno scelto di abortire. Si tratta evidentemente di una forma indebita di pressione psicologica che parte dal presupposto che la scelta in questo campo debba essere il più possibile indirizzata. Come per i CAV (Centri Aiuto alla Vita) la Regione ha trovato il modo di prevedere la presenza di un presidio antiabortista anche negli ospedali che fanno diagnosi prenatale. Questo atto di indirizzo della Regione è stato poi annullato dal Consiglio di Stato, come era prevedibile, ma oramai la voce del governatore è giunta a destinazione.
2006 – Indagine dell’Ass.E.Tortora Radicali Milano sugli ospedali lombardi – L’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano, dall’ottobre 2005 al giugno 2006, ha contattato tutti gli ospedali lombardi dotati di un reparto di Ginecologia, per monitorare l’applicazione della 194 e confrontarsi con i medici non-obiettori.
Ne è emerso un quadro desolante: i ginecologi che scelgono di non fare l’obiezione di coscienza in Lombardia sono risultati ovunque in minoranza. In alcuni casi è presente un solo medico non obiettore, che garantisce da solo il servizio di IVG per l’intero reparto, arrivando talvolta ad effettuare annualmente 200 aborti e oltre. Questo grande carico di responsabilità da vivere in sostanziale solitudine incide profondamente sulla qualità del lavoro e della vita dei medici non-obiettori. In altri casi è risultata una totale assenza di medici non-obiettori: le Direzioni ospedaliere scelgono di non effettuare il servizio di IVG (secondo la legge possono farlo, a patto che qualche ospedale sufficientemente vicino lo effettui), oppure di pagare un medico non-obiettore esterno all’ospedale (un “gettonista”) affinché periodicamente vada a praticare le IVG.
Molto spesso al lavoro dei medici non-obiettori, che garantiscono un trattamento sanitario tutelato dalla legge, si contrappone l’attività degli antiabortisti del Movimento per la Vita, direttamente presenti con le loro sedi in alcuni ospedali. Nel corso dell’indagine sono stati contattati 66 reparti di Ginecologia, su un totale di 74 presenti negli ospedali pubblici lombardi. Non per tutti gli ospedali è stato possibile reperire il dato del numero di medici non-obiettori rispetto a quello dei medici obiettori. I dati parziali in nostro possesso permettono di rilevare che mediamente in Lombardia nei reparti di Ostetricia e Ginecologia lavora intorno al 20% di personale non-obiettore, contro un 80% di personale obiettore di coscienza.
Ciò comporta grave stress per quei medici che si trovano, specie se da soli (come accade a Esine, a Como, a Cuggiono, a Bollate, a Tradate), ad essere minoranza garante del servizio di IVG all’interno di un intero ospedale. Spesso è proprio il rifiuto di diventare esclusivamente “procuratori di aborti” a spingere i medici a presentare l’obiezione di coscienza. Al progressivo aumento delle obiezioni di coscienza si aggiunge la preoccupante tendenza delle giovani generazioni di fare già durante la specializzazione in Ginecologia l’obiezione.
Vi sono in Lombardia almeno 12 reparti di Ostetricia e Ginecologia dove lavora esclusivamente personale obiettore di coscienza. Per garantire l’applicazione della legge 194 questi ospedali ricorrono al “gettonista”, cioè ad un medico non-obiettore esterno che periodicamente (di solito una volta alla settimana) si reca in ospedale ad effettuare le IVG.
Oltre alle strutture private e/o religiose, gli ospedali che hanno un reparto di Ostetricia e Ginecologia ma che non effettuano il servizio di interruzione volontaria di gravidanza in Lombardia sono almeno 9, di cui ben tre in provincia di Brescia.
Vi sono medici che in 17 diverse strutture ospedaliere si sono dichiarati a vario titolo interessati all’aborto farmacologico e all’utilizzo della Ru 486.
Sfortunatamente il clima di ossequio ai vertici della Regione Lombardia, dovuto probabilmente al timore di non vedersi riconfermati, determina in molti casi un abbandono della “battaglia” ancor prima dell’inizio: molti medici dichiarano infatti di essere favorevoli alla Ru 486 e persino indignati della mancata commercializzazione in Italia del farmaco, ma preferiscono evitare di esporsi richiedendone a viso aperto l’importazione. In altri casi i medici hanno scelto di parlarne prima con la Direzione, ricevendone quasi sempre veti più o meno categorici.
In 6 ospedali lombardi il Movimento per la Vita ha una sede.
Di fronte all’ospedale di Tradate, in provincia di Varese, all’entrata dell’ospedale capeggia il cartellone “Mamma ti voglio bene non uccidermi” raffigurante un feto di 15 settimane (il termine “ordinario” per le IVG è di 12 settimane).
In almeno 6 ospedali è capitato o capita tutt’ora, anche se in casi sporadici, che le donne in IVG vengano messe nelle stesse stanze o in stanze attigue a quelle di donne che stanno partorendo.
E’ da ritenere indispensabile che sia attuata una rigorosa separazione tra i ricoveri di Ginecologia e quelli di Ostetricia.
L’Ass.E.Tortora Radicali Milano ha inoltre svolto anche un’opera di informazione, supporto e consulenza per tutti quei ginecologi interessati all’utilizzo della pillola abortiva Ru486, attraverso l’avvio di uno studio clinico o la richiesta di importazione dall’estero. I dettagli di questa ricerca sono disponibili al link:
old.associazionelucacoscioni.it/node/5088740
Linee Guida Legge 40 – Il 1 maggio 2008 Formigoni dichiarava che in Lombardia non si sarebbero rispettate le linee guida sulla legge 40/2004 sulla fecondazione assistita, che tra l’altro tornavano a rendere possibile la diagnosi genetica pre-impianto. Si leggeva infatti in un articolo del Corriere della Sera: “Diffonderemo a breve una circolare di raccomandazione ai medici per scongiurare i rischi di eugenetica impliciti nelle nuove linee guida del ministro della Salute uscente”. La decisione di non applicare il decreto di Livia Turco per Formigoni era “una questione di rispetto della vita”, oltre che della “volontà popolare”: “I risultati del referendum del giugno 2005 – continuava il governatore lombardo – ci dicono che almeno il 75% degli italiani non vuole modificare le norme sulla fecondazione assistita. (…)“Inviteremo i ginecologi a rispettare la legge 40. Le linee guida non sono da considerarsi obbligatorie (…) consiglieremo ai medici delimitarsi a fare quello che hanno fatto negli ultimi quattro anni”. L’indebita pressione sui medici continua.
RU486 – Mentre in Piemonte iniziava la sperimentazione dell’aborto medico con la RU486, il Presidente Formigoni proclamava che non avrebbe mai permesso di utilizzare la RU486 in Lombardia, stroncando sul nascere ogni richiesta da parte degli ospedali. Così nel 2006 per aggirare il divieto, furono eseguiti 53 aborti medici all’Ospedale Buzzi utilizzando il methotrexate, farmaco disponibile in Italia, al posto della RU486. Sebbene l’iniziativa fosse mossa da intenti scientifici, la disobedienza civile del Prof. Umberto Nicolini dimostrò la liceità dell’aborto medico in Italia. La Regione gli impose lo stop, ma la magistratura archiviò il procedimento penale prima della sua prematura scomparsa a causa di un tumore nel 2008. Oggi in Lombardia la questione della RU486 è un tabù e sempre più donne lombarde si rivolgono all’estero. Nel 2008 un terzo degli aborti del Canton Ticino riguarda donne italiane e il 90% di queste si è recato in Svizzera proprio per avere la RU486.
Seppellimento feti ed embrioni – La Regione di Formigoni ha, inoltre, legiferato in contrasto con la legge 194 sul seppellimento dei feti (come pronunciato da sentenza della Procura in risposta ad un esposto presentato dai radicali Federico e Viale). Il regolamento lombardo varato a fine gennaio 2008 prevedeva la sepoltura dei feti sotto le 20 settimane. A febbraio dello stesso anno i Radicali hanno presentato una denuncia, sulla quale si è espresso il pubblico ministero Marco Ghezzi, per il quale: “il regolamento regionale recentemente introdotto si pone oggettivamente come ostacolo, quantomeno di natura psicologica, all´interruzione volontaria della gravidanza, posto che, prevedendone la sepoltura tende ad assimilare il prodotto del concepimento a un individuo (…) ». Il magistrato chiamato a valutare la denuncia presentata, a febbraio, dai radicali contro il discusso regolamento ha chiesto l´archiviazione dell´esposto "perché non c´è violazione di norma". Pur avendo archiviato l’esposto il magistrato nel merito ha dato ragione ai radicali riconoscendo che di fatto il regolamento, oltre a limitare la libertà della donna crea un ostacolo reale alla scelta di abortire. Al quotidiano Repubblica il procuratore ha dichiarato: «L´archiviazione l´ho chiesta perché il regolamento non viola le norme. Questo però non mi impedisce di dire che il provvedimento sulla sepoltura dei feti sia un ostacolo a una legge dello Stato, fatta apposta per evitare il ricorso agli aborti clandestini».
Una donna aveva denunciato che in un ospedale milanese, il San Paolo, era stata costretta a firmare un modulo in cui doveva indicare se avrebbe provveduto a seppellire il feto oppure delegava l´ospedale. Il tutto prima di entrare in sala operatoria. Da lì si era scoperto che altri ospedali, come il Niguarda e la Melloni, avevano adottato la stessa prassi, sconfessata poi dalla Regione. «Hanno male interpretato – ha fatto sapere l´assessorato regionale alla Sanità – le donne vanno informate con una semplice lettera messa nella bacheca della corsia ospedaliera».
Milano, 9 giugno 2007 • Dichiarazione dei radicali Valerio Federico e Silvio Viale, presentatori dell’esposto alla procura di Milano contro il Regolamento regionale sulla sepoltura dei prodotti del concepimento: “Lo avevamo detto che avrebbero molestato le donne, violando privacy e 194, e prontamente avevamo depositato un esposto in Procura. Alcuni ci avevano risposto che era un adempimento di legge, un “vuoto da colmare”. Altri con un “vigileremo”, ironizzando sulla nostra previsione che alle donne sarebbe stato chiesto cosa fare del “materiale abortivo”. Oggi abbiamo la conferma che avevamo ragione; perciò rinnoviamo la richiesta che la magistratura apra un’indagine sui casi riguardanti gli ospedali Niguarda, San Paolo e Melloni”.
Il PM ha ritenuto, non emergendo alcuna ipotesi di reato, di archiviare l’esposto. La motivazione non convince: se la Procura stessa afferma che è certo l´ostacolo, quantomeno di natura psicologica, all’IVG allora è necessario fare riferimento alla legge 194 là dove afferma che è perseguibile penalmente chi adotta modalità o procedure che violano la dignità o la libertà della donna. In più nei moduli dati agli ospedali è previsto che venga rivelata l´identità della donna, in contraddizione con la normativa attuale: “In nessun modo si deve poter risalire alla identità di chi ha scelto l´interruzione volontaria di gravidanza». Per questi motivi gli esponenti radicali hanno presentato opposizione con richiesta motivata di prosecuzione dell’indagine preliminare.
L´opposizione in Regione non ha fatto nulla per impedire l´approvazione del regolamento. Il centrosinistra ha avuto un atteggiamento passivo. È caduto in un tranello ma quando se ne è accorto, invece di ammettere di aver sbagliato e cercare di risolvere il problema alla radice, contestando il principio di questo regolamento, ne ha contestato il metodo, riferendosi alla modalità di come la donna deve essere informata. E’ invece il principio che va difeso: se scelgo l´interruzione di gravidanza io non uccido nessuno e nessuno mi deve chiedere se voglio seppellire o meno il feto, l’embrione o lo zigote. In Lombardia i Radicali sono stati i soli a difendere ancora questo principio. Sono stati l’unica forza politica a dire che il regolamento andava spazzato via. Altrimenti si arriverà ad avere anche i cimiteri dei feti, che serviranno a ricordare, come sostiene il Movimento per la Vita, che lì ci sono degli individui assassinati.
Anche in questo caso la Lombardia è sembrata fare da apripista verso altre città, come Roma per esempio, nel volere esportare dei modelli ideologico religiosi, ben lontani da un’idea di stato laico. Luna De Bartolo scrive, infatti, su Il Politico del 16 marzo 2009 che “Il consiglio del XX municipio di Roma (Tor di Quinto) ha approvato, con 11 sì (Pdl), 3 no (Pd), 2 astenuti (uno de La Destra e uno del Pd) e su ordine del giorno dell’esponente Pdl Marco Petrelli, la richiesta formale inoltrata al Campidoglio circa la proposta di riservare nei cimiteri del XX Municipio apposite aree per la sepoltura di embrioni e feti abortiti, che figurano nel documento con la perifrasi ‘bambini non nati’”, riportando inoltre le parole di Giorgio Gibertini, presidente del Centro di aiuto alla vita di Roma e promotore dell’iniziativa, secondo il quale “il Cav di Roma propone per Roma quello che già accade in Lombardia: in caso di aborto, sia spontaneo che volontario, gli ospedali avranno l’obbligo di spiegare ai genitori che possono chiedere la sepoltura e celebrare il funerale. Si tratterebbe di una norma storica sacrosanta in nome del diritto naturale”.
La legge nazionale prevede che solo i feti abortiti, spontaneamente o per motivi terapeutici, dopo le venti settimane debbano essere inviati al cimitero, mentre i feti e gli embrioni al di sotto delle venti settimane sono trattati come tutto il materiale organico umano e inceneriti.
Era ed è irrisorio il numero delle donne che chiede il funerale e/o la sepoltura per feti sotto le 28 settimane. Questo dimostra l’assenza di una domanda sociale di questo tipo e quindi quanto siano state strumentali e propagandistiche le argomentazioni degli antiaboristi.
Sin dall’inizio di questa vicenda, l’intento è sempre stato quello di accanirsi psicologicamente contro le donne che vogliono ricorrere alla IVG, creando condizionamenti e sensi di colpa. Purtroppo un Consiglio regionale distratto, pensando più alle imprese delle pompe funebre che alle donne, ha votato all’unanimità una disposizione aberrante e perversa, dimostrando quanto la maggioranza di centrodestra sia “pronta a tutto” e quanto l’opposizione di centrosinistra sia “buona a nulla”.
La legge regionale n.3 del 2003 – In merito all’interruzione volontaria di gravidanza, oltre a quanto già citato, bisogna ricordare che, lo scorso anno, il Consiglio Regionale ha approvato una legge (L.R. 12 marzo 2003, n.3), il cui articolo 4 recita testualmente: “1. Le unità di offerta sociale hanno il compito di: (comma b) tutelare la maternità e la vita umana fin dal concepimento e garantire interventi di sostegno alla maternità e paternità ed al benessere del bambino, rimuovendo le cause di ordine sociale, psicologico ed economico che possono ostacolare una procreazione consapevole e determinare l’interruzione della gravidanza”. Insomma, una Legge regionale che contrasta apertamente, almeno nei principi, con la 194 e tenta di garantire una sponda legislativa, (debolissima se il diritto in Italia fosse rispettato) a manovre amministrative volte ad interferire su libere scelta dell’individuo.
Finanziamenti ai CAV – E che dire dei finanziamenti al CAV della Mangiagalli erogati a seguito di un appello di Giuliano Ferrara?
Il Movimento per la Vita ha ottenuto per il suo CAV all’interno della clinica Mangiagalli di Milano un finanziamento di 700 mila euro da Comune e Regione, assicurato dall’oggi al domani su richiesta dei responsabili del CAV e di Giuliano Ferrara, in sfregio a qualunque prassi consolidata di utilizzo del denaro pubblico. Il Centro di Aiuto alla Vita della Mangiagalli è diretto dalla dottoressa Paola Bonzi, candidatasi proprio nelle liste di Giuliano Ferrara.
La Regione Lombardia, su iniziativa di Formigoni e dell’assessore alla Famiglia Gian Carlo Abelli, il 20 dicembre ‘07 ha deliberato uno stanziamento di 500mila euro a favore del Centro di Aiuto alla Vita (CAV) dell’ospedale Mangiagalli di Milano. Il Comune di Milano, grazie all’iniziativa del capogruppo di AN in consiglio comunale Carlo Fidanza, ha stanziato invece "solo" 200mila euro. E’ intollerabile che il CAV abbia ottenuto 700mila euro per le proprie attività senza alcun controllo né presentazione di progetti ma solamente perchè è una struttura "amica" della Moratti e di Formigoni. E’ – o almeno dovrebbe essere – finito il tempo dei finanziamenti a pioggia dati agli "amici". I soldi al privato sociale, ormai da anni, si danno a seguito di bandi, con criteri chiari e con rendicontazioni trasparenti.
I soldi dei cittadini devono finanziare chi garantisce un servizio migliore, sulla base delle indicazioni delle istituzioni, sulla base insomma di una sana competizione.
Ci sono centinaia di associazioni e organizzazioni che svolgono ottimi lavori a beneficio della cittadinanza e che non riescono ad ottenere i finanziamenti o ne ottengono in misura minima.
Che siano i cittadini a mettersi in fila per aiutare il CAV della Mangiagalli in difficoltà, non le istituzioni.
Formigoni ha poi comunicato la sua intenzione di regalare i soldi dei contribuenti a tutti i CAV lombardi. Che servizio di “accompagnamento psicologico” possono garantire persone che in realtà esercitano un forte e indebito “condizionamento psicologico” su chi intende esercitare una scelta garantita, da trent’anni, dalla legge dello stato?
Nella stanza del CAV della Mangiagalli vengono mostrati filmati e foto che danno una visione ideologico – religiosa dell’aborto, facendo un’operazione di grave disinformazione. Non sappiamo se sia il caso della Mangiagalli, ma in altri ospedali (come per esempio a Brescia) i volontari del CAV avvicinano le donne in sala d’attesa, sapendo benissimo in quali giorni sono fissati i colloqui per le interruzioni di gravidanza: questo è "terrorismo psicologico" e invasione della privacy.
E’ legittimo che i volontari del CAV mostrino o dicano quello che vogliono, ma noi preferiremmo che lo facessero fuori dagli ospedali: e se proprio devono rimanere dentro, pretendiamo che almeno non lo facciano grazie ai soldi dei cittadini.
I volontari del CAV dovrebbero starsene buoni e tranquilli nelle loro sedi e aspettare che siano le donne a decidere di chiedere il loro consulto: è inconcepibile che ledano la privacy in questo modo.
Il lavoro di sostegno psicologico alle donne che stanno decidendo se abortire deve essere fatto dai consultori pubblici o dai consultori privati laici, e non da una organizzazione antiabortista come il CAV. Che, per di più, ha la sede dentro l’ospedale.
Il Movimento per la Vita (i CAV sono sue articolazioni) fin dal 1995, con una legge di iniziativa popolare, ha proposto che, modificando l’art.1 del Codice Civile, la soggettività giuridica di ogni essere umano sia dichiarata fin dal concepimento.
Consultori – Un collegato alla finanziaria regionale del 2001 ha modificato la legge regionale 6 settembre 1976, n. 44 (Istituzione del servizio per l’educazione sessuale, per la procreazione libera e consapevole, per l’assistenza alla maternità, all’infanzia e alla famiglia), consentendo ai consultori privati accreditati – finanziati dalla Regione – di non applicare la Legge 194.
La conseguenza è un paradosso: la Regione finanzia dei consultori che non fanno i consultori, poiché non rispettano la legge n. 405 del 29 luglio ’75 che ha istituito in Italia la figura del consultorio familiare. Questa legge afferma all’art. 1 che “il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi (comma b) “la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti” (comma d) “la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso”
In Lombardia sono decine e decine i consultori finanziati con i soldi dei contribuenti che hanno solo medici obiettori, che quindi non prescrivono la pillola del giorno dopo – considerandola una pratica abortiva -, non informano sui metodi contraccettivi e non prescrivono nemmeno la pillola anticoncezionale. Esiste nella regione lombarda una rete di centri convenzionati in cui si pratica una "obiezione di struttura" che si traduce nell’impossibilità, per la donna, di far valere i suoi diritti. Il numero di medici obiettori in Lombardia è altissimo: sette su dieci non praticano interruzioni di gravidanza (contro il 60% a livello nazionale) e — in una interpretazione estensiva dei diritti degli obiettori — non prescrivono la pillola del giorno dopo, contestandone la classificazione come farmaco per la contraccezione d’emergenza.
Pillola del giorno dopo – La struttura ospedaliera deve sempre garantire il diritto della donna ad accedere alla contraccezione d’emergenza. Questo non accade però in molti ospedali della Lombardia di Formigoni, dove grazie all’iniziativa della Cellula Coscioni di Milano denominata SOS PILLOLA DEL GIORNO DOPO un gruppo di medici ha raccolto testimonianze di donne che si sono viste rifiutare la prescrizione della pillola da parte di altri medici incontrati nei seguenti ospedali: Gallarate, Busto Arsizio, Riguarda, Fatebenefratelli, Abbiategrasso, M. Melloni, S. Carlo, Lodi, Crema, Melegnano, Bassini (Cinisello), Sesto S. Giovanni, Riuniti di Bergamo, S. Giuseppe, S. Paolo, S. Raffaele.
In attesa che venga abolito l’inutile obbligo di ricetta medica per questo farmaco l’Associazione Coscioni e i radicali hanno chiesto che le guardie mediche e le aziende ospedaliere non vengano meno ai loro compiti, e che garantiscano le prescrizioni a tutte le donne senza perdere tempo prezioso, riducendo così il rischio di ricorso all’aborto. Hanno altresì chiesto che tutti i consultori pagati dai cittadini assicurino questo servizio: cosa che oggi, nella Lombardia di Formigoni, non avviene.
La Cellula Coscioni di Milano ha messo in piedi un’iniziativa con 11 MEDICI DI COSCIENZA, che a titolo volontario con il loro impegno militante hanno assicurato alle donne un diritto che il sistema sanitario nazionale in spregio alle leggi non garantisce.
Soldi al banco alimentare – Legge Regionale N. 25 del 2 dicembre 2006 – Se poi facciamo riferimento a un’altra parola d’ordine dei ciellini – la sussidiaretà – allora capiamo come il cosiddetto privato-sociale finanziato dalla Regione non è altro che un sistema per foraggiare gli amici del governatore. Basti pensare ad una legge di qualche anno fa che finanziava con 700.000 Euro il Banco Alimentare, organizzazione a controllo ciellino, senza alcuno spazio per altri attori.
Lo Statuto – Con oltre otto anni di ritardo rispetto alla modifica costituzionale che attribuiva alle Regioni una funzione costituente, finalmente, nel 2008, anche la Lombardia è riuscita ad approvare un nuovo Statuto regionale, chiamato pomposamente, tanto per non scontentare la Lega, già troppo penalizzata dal crescente potere ciellino: “Statuto d’Autonomia della Lombardia”.
Sarebbe troppo lungo raccontare le vicende che hanno portato a una dilatazione così evidente dei tempi di approvazione, basti pensare che la legislatura 2000-2005 ha visto i consiglieri radicali incalzare costantemente e senza successo le altre forze politiche perché venisse rispettato l’impegno costituzionale all’approvazione del nuovo Statuto. I veti incrociati, le divisioni interne a maggioranza e opposizione e i contrasti tra il Consiglio e la Giunta hanno reso impossibile per otto anni, anche solo parlare seriamente di Statuto e l’unica proposta formalmente depositata nella settima legislatura è stata quella radicale.
Nella legislatura attualmente in corso si è finalmente arrivati a rispettare le indicazioni costituzionali. Ovviamente la strategia per arrivare all’approvazione del testo statutario è stata tutta fondata sul compromesso tra le due forze politiche principali, lasciando ai “piccoli” alcuni ‘contentini’ e costruendo il testo su un modello di società totalmente avulso dalla realtà lombarda.
Da un punto di vista liberale e radicale lo Statuto approvato presenta una serie impressionante di lacune e incongruenze, sia sotto l’aspetto della tutela dei diritti civili, sia sui temi economici, su cui lo sbandierato, un tempo, liberismo del centrodestra, lascia spazio ad una visione definitivamente corporativa e social-ciellina.
L’elaborazione dello Statuto ha rappresentato per Formigoni e i suoi l’occasione più ghiotta per ribadire alcuni principi, per altro ben radicati anche nel centro sinistra, su cui hanno impostato le politiche regionali di questi quindici anni. Il risultato è uno Statuto che, nonostante i proclami di imparzialità, è frutto di una impostazione culturale molto chiara e di fatto esclude una parte assolutamente rilevante di cittadini lombardi che non si riconoscano nella visione formigoniana del mondo e della vita, nella visione sindacal-cooperativa del lavoro e in quella leghista dell’ordine pubblico.
Indubbiamente è il Titolo I a presentare il maggior numero di aspetti critici per chi creda ad un’idea di società aperta, inclusiva e liberale, modello che peraltro, nella “Lombardia reale” attuale, continua a prevalere .
Intanto c’è da chiedersi se fosse necessario prevedere nello Statuto regionale un intero titolo zeppo di enunciazioni di principio, di richiami ideologici, che resterà verosimilmente lettera morta. Nessuno ha avuto il coraggio di proporre di limitare lo Statuto agli aspetti istituzionali e, una volta accettata l’idea di richiamare nel testo aspetti culturali ed ideologici, si è aperta la gara per farci entrare di tutto: un po’ di autonomia per i leghisti, la famiglia tradizionale per i ciellini, la sicurezza sul lavoro per Rifondazione, il valore della cooperazione per il PD, le radici cristiane volute da AN, il rispetto per gli animali e il paesaggio. Il risultato di questa gara al rialzo è che all’articolo 2, comma 4, i punti qualificanti dell’azione regionale sono diventati addirittura sedici e riguardano, di fatto, l’intero Universo.
Diritti civili (famiglia, maternità) – Ovviamente per gli elaboratori dello Statuto i diritti civili sono “temi eticamente sensibili”, per cui la discussione è stata particolarmente complessa e ha visto il “contributo” anche di elementi esterni, tra cui l’ ”Osservatorio Diocesano”, che ha ottenuto una audizione in Commissione e ha presentato proposte emendative in larga parte accolte.
Dopo lungo dibattito si è arrivati a stabilire letteralmente che : “ La Regione, nell’ambito delle proprie competenze tutela la famiglia, così come riconosciuta dalla Costituzione, con adeguate politiche sociali, economiche e fiscali…”. Ciò significa, ad esempio, che se in futuro una giunta regionale di colore politico diverso, dovesse decidere di inserire le coppie di fatto nelle graduatorie per l’assegnazione di contributi o per l’assegnazione di alloggi popolari lo farebbe in contrasto con lo Statuto regionale. E’ vero che alcune sentenze della Corte Costituzionale hanno stabilito che gli articoli di principio degli statuti regionali non hanno carattere vincolante, ma resta il fatto che nella Carta fondamentale della Lombardia è sancita una discriminazione nei confronti di molti cittadini della regione.
Altro tema spinoso è stato quello relativo all’aborto. Il testo iniziale, approdato in commissione, non comprendeva richiami sull’argomento; in sede di audizione è stato il già citato “Osservatorio Diocesano” a chiedere che venisse richiamata la tutela della vita fin dal concepimento. Il testo dello Statuto che recita: “ La Regione, nell’ambito delle proprie competenze attua tutte le iniziative positive in favore del diritto alla vita in ogni sua fase”, rappresenta un compromesso comunque inaccettabile per chi ha una visione laica della società.
Rapporti Regione/Chiesa – “La Regione Lombardia riconosce nella Chiesa cattolica e nelle altre confessioni religiose riconosciute dall’ordinamento, formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo e orienta la sua azione alla cooperazione con queste, per la promozione della dignità umana e il bene della comunità regionale”.
Un’affermazione simile, messa tra i principi fondamentali di uno Statuto, non ha bisogno di commenti. La personalità dell’individuo si forma solo nelle Chiese riconosciute dall’ordinamento (nelle altre chissà come mai no….) e la Regione collabora con la Chiesa per il bene della comunità.
E’ da sottolineare che questo comma non era previsto nella stesura iniziale dello Statuto ed è stato letteralmente imposto in Commissione dopo l’audizione con il solito “Osservatorio Diocesano”, che ne ha curato anche la stesura materiale.
Ovviamente non manca il richiamo alle radici cristiane, a cui, su richiesta della Sinistra Arcobaleno sono state inutilmente affiancate quelle “civili”: “La Lombardia persegue sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili il riconoscimento e la valorizzazione delle identità storiche, culturali e linguistiche presenti sul territorio”.
Il progetto formigoniano trova importanti sponde: indicative sono le parole del consigliere regionale del Partito Democratico Carlo Spreafico usate durante il suo intervento in aula sulla proposta di Statuto della Regione Lombardia (11/03/2008):
“Mi pare importante mettere al centro, come fa lo Statuto: la persona, la partecipazione, il ruolo
legislativo della Regione rafforzato dal Titolo V della Costituzione (…)”
“Mi pare importante avere messo in rilievo il ruolo pubblico della religione, che lo Statuto sostiene rifiutando l’idea di una religiosità relegata alla sfera della coscienza personale”
Sussidiarietà in salsa lombarda – Dal 1995 l’applicazione del concetto di sussidarietà, così caro alla componente ciellina della maggioranza ha preso sempre più piede. Ovviamente la sussidiarietà attuata in Lombardia non è quella cosiddetta verticale, per cui la ripartizione gerarchica delle competenze viene spostata verso gli enti più prossimi al cittadino, bensì quella orizzontale, per cui i corpi intermedi cooperano con la Regione nella definizione delle politiche da attuare e direttamente le gestiscono.
Di fatto si afferma sempre più un centralismo regionale, che espropria gli Enti locali di moltissime competenze e che la Regione gestisce insieme ai corpi intermedi, in buona parte di matrice “Compagnia delle Opere”.
In questi anni la sussidiarietà è stata interpretata come il modo per garantire agli amici di Formigoni finanziamenti, strutture, agevolazioni di ogni tipo. Gran parte delle leggi ispirate al principio di sussidiarietà, approvate in questo quindicennio, si sono risolte in enormi vantaggi per la “C.d.O.”, che ha visto aumentare e a dismisura il proprio potere, ormai ramificato in ogni settore dell’economia regionale, ma ovviamente a questa logica non è estraneo neppure il Partito Democratico, con il suo sottobosco di Acli, cooperative e sindacati.
Con queste premesse lo Statuto non poteva che trasformarsi nel “Manifesto della sussidiarietà lombarda”, a cui è dedicato un articolo nell’ambito dei principi e addirittura un intero titolo in cui viene apertamente riconosciuto che “le autonomie funzionali e sociali concorrono alla formazione degli indirizzi generali della politica regionale”.
Lo scippo dei referendum regionali – I sostenitori dello Statuto sostengono che “questo documento risponde appieno alle esigenze dei cittadini”, parole che suonano beffarde se riferite alle migliaia di coppie di fatto non tenute in considerazione nel testo o ai numerosi imprenditori che credono nella libera iniziativa e si vedono scavalcati da congregazioni affaristico-religiose, per non parlare dei cittadini che credono alla democrazia diretta e ai referendum, che si vedono espropriare un diritto fondamentale.
Anche su questo l’asse PDL-PD è stato deleterio: le firme per proporre un referendum abrogativo di leggi regionali sono state portate da 90.000 a 300.000 e si è rischiato finisse anche peggio, visto che il PD, in commissione, aveva addirittura proposto di portare il numero a 700.000!
Da notare che fino al 1985 le firme da raccogliere erano solo 20.000 e solo una volta, nel 1981 si è arrivati a votare su alcuni quesiti, finchè il Consiglio ha ritenuto che le richieste di referendum fossero troppe e ha portato a 90.000 il numero di sottoscrizioni. L’obiettivo di limitare le richieste è stato raggiunto in pieno: da quel momento solo una richiesta di referendum di iniziativa popolare è arrivato all’esame dell’Aula, ma mancando 5.000 firme, è risultata inammissibile. Insomma, se già 90.000 firme in Lombardia erano un risultato difficile da raggiungere, 300.000 sottoscrizioni non sono neppure ipotizzabili, per cui si può dire che l’istituto referendario regionale sia stato definitivamente affossato.
E alla faccia della sussidiarietà, quella vera, anche il numero di consigli comunali che possono proporre referendum abrogativo di leggi regionali è stato aumentato, da 50 a 150, rendendo improbo, anche per questi enti, richiedere il pronunciamento degli elettori.
Modello istituzionale – Lo Statuto conferma il modello presidenzialista, con elezione diretta del Presidente della Regione e un esecutivo forte e indipendente. Il presidenzialismo lombardo, come quello della maggior parte delle regioni italiane, in definitiva, si risolve in un modello decisionista, tutto centrato sulla figura del Presidente, senza previsione di contrappesi efficaci e soprattutto di strumenti di controllo per i Consigli. La situazione rischia di aggravarsi con l’approvazione del nuovo Regolamento Generale del Consiglio Regionale, attualmente in discussione in commissione, che prevede l’eliminazione di qualsiasi possibilità di ostruzionismo reale, il contingentamento sempre più serrato dei tempi di discussione in aula, la compressione di alcuni diritti dei consiglieri in favore della mediazione di presidenti dei gruppi consiliari.
Entro la fine della legislatura dovrebbe anche essere approvata una nuova legge elettorale che per ora è in discussione nelle segreterie dei partiti maggiori, senza nessun confronto pubblico, tanto meno in commissione. L’idea prevalente è che ancora una volta, a tre mesi dalle elezioni, arriverà una proposta blindata, con l’obbiettivo di rafforzare il modello proporzionale bipartico, ovviamente secondo il bipartitismo italiano, quello in cui i due partiti maggiori si accordano per far fuori gli altri. Il rischio, in Lombardia, è quello di trovarsi a convivere con un modello istituzionale di tipo centro-americano, proporzionale – bipartitico – presidenziale, con il potere accentrato nelle mani dell’esecutivo che, con l’appoggio dei corpi intermedi, consolida e impone la propria visione dell’economia, della società e delle istituzioni.
In Aula – Lo Statuto è stato approvato con il voto favorevole di tutti i gruppi del centro-destra e del PD, la Sinistra Arcobaleno si è astenuta e ha votato contro il consigliere dell’ Italia dei Valori, dichiarando che il suo partito era pronto a raccogliere le firme per il referendum confermativo. Ovviamente, nei tre mesi in cui sarebbe stato possibile farlo, non un solo tavolo di raccolta firme dell’IDV si è visto nelle strade di Lombardia e lo Statuto è entrato regolarmente in vigore il 1 settembre 2008.
Compagnia delle Opere – La Compagnia delle Opere è il braccio economico di Comunione e Liberazione. Pur professandosi per il libero mercato attraverso il motto “più società, meno Stato”, la CDO è un’associazione che sopprime la libera concorrenza e il libero mercato, anche grazie alle sovvenzioni pubbliche che alcune imprese iscritte alla CDO ricevono da parte della Regione Lombardia, oltre che alla oramai sommaria esclusione delle aziende non iscritte nell’assegnazione di appalti pubblici, concessi ad imprese “vicine” a Comunione e Liberazione e/o iscritte alla Compagnia delle Opere. Il sistema non rappresenta quindi un esempio di mercato concorrenziale, ma trae spunto piuttosto dal sistema delle arti e delle corporazioni medioevale. Anche in questo ambito, quello del mercato, la Regione Lombardia, grazie a Roberto Formigoni e ai suoi collaboratori, sta sperimentando un pericoloso connubio tra pubblico e privato, il tutto basato su una tessera che privilegia alcune aziende a discapito di altre, occupando quasi monopolisticamente il mercato.
Attualmente la Compagnia delle Opere conta 34.000 imprese iscritte in tutta Italia (nel 2002 ne contava circa 20.000, tra cui più di 6.000 nella sola zona del milanese, circa 1000 nel Lazio e 700 in Campania), ma il dato da non sottovalutare è che in alcune zone il numero di iscritti alla CDO infastidisce la Confindustria locale. L’esempio siciliano è illuminante, nel 2002 le aziende iscritte alla Compagnia delle Opere erano 330, questo dato bastava però per fare sì che l’allora presidente di Sicindustria, Giovanni Catalano, storcesse il naso e dichiarasse «massimo rispetto per ogni forma di associazionismo. Bisogna stare attenti, però, a non ingenerare confusione. A non tradurre un’ azione nel sociale in attività di tutela di interessi non propri della sfera sociale» e continuasse affermando che «noi e l’ Api siamo le uniche associazioni a non aver mai ricevuto contributi dal bilancio regionale». La giunta regionale guidata da Salvatore Cuffaro approvò, infatti, in Finanziaria “il finanziamento al Banco alimentare (…). Oppure la norma che cancella l’ Irap per le imprese onlus e per le coop sociali, vale a dire la base e il cuore dell’ organizzazione imprenditoriale ciellina”, come scriveva allora Enrico Del Mercato su La Repubblica ed. Palermo.
Anche in questo caso, la Regione Lombardia ha rappresentato un modello esportabile ed esportato di sistema nel quale il privato non agisce indipendentemente dalle azioni del pubblico, ma ne è strettamente interconnesso attraverso finanziamenti e agevolazioni, contrapponendosi in questo modo a quelli che sono i principi del libero mercato.