Ecco cosa si prova aiutando un amico a morire

di Cecilia Pierami

StefanoStefanoNel 2000 fece quattro iniezioni di insulina nel braccio dell ‘ex compagno di scuola, allora 27enne, affetto da una malattia degenerativa al cuore. «Capivo la sua sofferenza e il desiderio di finirla. Insisteva perché lo aiutassi. Ma ora non lo rifarei». Per la prima volta parla il giovane che è passato nel tunnel dell ‘eutanasia.

 

Dal 23 maggio 2000 a oggi tanti sono stati i casi legati all’eutanasia finiti in prima pagina o nei titoli dei tg: Welby, Sglaro, Crisafulli… In quel maggio lontano, invece, il protagonista di una morte cercata era Stefano, giovane studente universitario gravemente malato di cuore.

Quando il suo corpo viene trovato, in un bosco, si scopre che a ucciderlo è stata una dose massiccia di insulina. Stefano aveva chiesto al suo migliore amico di iniettargliela.
Panorama ha cercato quell’amico di Stefano. Oggi ha 34 anni e ha accettato per la prima volta di raccontare quei momenti, a patto di rimanere protetto dall’anonimato, lui che ha già scelto di cambiare città per allontanare quei ricordi. Per quel gesto ha scontato la pena di 3 anni inflittagli in Cassazione per omicidio di consenziente, convertita poi in affidamento ai servizi sociali.
Quando vi siete conosciuti lei e Stefano?
La nostra amicizia è nata ai tempi della scuola superiore. Ci vedevamo soprattutto nell ‘intervallo: avevamo diversi interessi in comune, la musica, l ‘hi-fi, la filosofia… I:anno dopo cambiai scuola, ci perdemmo di vista, poi casualmente ci trovammo a un compleanno di un ‘amica comune. Quella sera lui era arrivato in autostop perché era rimasto senza benzina. Ridemmo e scherzammo e fu un po’ l’occasione per rinsaldare la nostra amicizia.
Vi frequentavate abitualmente?
Finite le superiori, tutti e due abbiamo scelto la facoltà di filosofia. Passavamo la domenica quasi sempre insieme, a casa mia o a casa sua. I suoi genitori mi avevano voluto conoscere: una sera eravamo stati a sentire suonare un gruppo vicino a casa sua, Stefano mi disse: «I miei genitori sono curiosi di vedere questo tipo di cui parlo sempre e che conoscono solo per telefono».
Che tipo di amicizia avevate?
Fraterna. E per questo che mi ha chiesto di aiutarlo e ha insistito così tanto: io avevo vissuto tutta la malattia con lui e sapeva che capivo la sua sofferenza.
Come stava Stefano negli ultimi tempi?
Quando si è ammalato, aveva 23 anni: allora suonava la chitarra, studiava all’università, andava in motocicletta, faceva tantissimo sport. La malattia lo ha demolito levandogli tutto quello che amava e voleva fare. Negli ultimi tempi aveva avuto un tracollo fisico: passava le giornate steso a letto o sul divano. Non riusciva neanche più a suonare la chitarra. Un giorno mi disse: «Trova qualcuno che vuole le mie chitarre, non sopporto più di vederle davanti e di non poterle suonare».
Come è arrivato alla decisione di aiutarlo a morire?
Capivo la sua sofferenza e il suo desiderio di morire. Ma mi dicevo: questo non si fa. Non ero d’accordo con quel che mi chiedeva. Purtroppo, la mia capacità analitica a un certo punto è venuta meno. Fino ad allora avevo pensato: questo non si fa perché faccio del male, violo una legge, non è consentito, noccio a lui, a me, alla mia famiglia e alla sua. Tutto questo, all’ultimo, è venuto meno.
Ha capito perché?
Quel giorno sono caduto in uno stato di prostrazione emotiva tale che non ho più potuto oppormi. Probabilmente anche per la sua insistenza: Stefano era determinatissimo a farlo. Se mi vedo con gli occhi di oggi compiere un’azione del genere, mi sembra di vedere un film, non un mio ricordo.
Da quanto tempo Stefano aveva deciso di morire?
Non so da quanto pensasse a uscire di scena, è difficile dirlo: credo più o meno che l’idea sia maturata fra l’inverno e l’inizio dell’anno. Mi diceva sempre più spesso che stava male.
Si ricorda quando le ha detto esplicitamente che voleva morire?
Eravamo al telefono, era l’inizio dell’anno e si era sentito male per l’ennesima volta e sconfortato mi disse: «Va a finire che lascio baracca e burattini». Gli chiesi: «In che senso?». E lui mi rispose: «La faccio finita». Ne parlammo un po’ e alla fine mi fece giurare di non dirlo a nessuno. Mi spaventai moltissimo, naturalmente. Da allora in poi Stefano riprendeva l’argomento, chiedendo un mio aiuto.
Cosa è successo quell’ultimo giorno?
Stefano mi aveva detto che avrebbe voluto stare per qualche giorno da solo, allontanarsi per un po’ da tutti. Lo avevo accompagnato. Non era una cosa inusuale, spesso andavamo a fare delle passeggiate nei boschi. Ma una volta arrivati, al casolare abbandonato dove sarebbe dovuto stare, le sue richieste si sono fatte sempre più pressanti: ha preparato le siringhe con l’insulina, me le ha messe in mano e mi ha detto: «Fallo!».
Perché lo ha chiesto a lei invece di farlo da solo?
Non lo so. Me lo sono sempre domandato, ma una risposta precisa non ce l’ho. Credo non avesse la forza interiore per riuscirci.
All’epoca i giornali parlarono di un patto fra voi due, per cui lei non avrebbe dovuto rivelare cosa era successo e dove si trovava il corpo.
Lui voleva così. Lo aveva ripetuto più volte e a più persone: «La mia volontà è quella di andarmene lontano da tutti. Scompaio e nessuno mi deve veder soffrire. Voglio morire nella massima riservatezza possibile». Era una sorta di testamento spirituale e in un primo momento ho creduto di poterlo accontentare. Poi però non ce l’ho più fatta. Sapevo che i suoi genitori soffrivano e lo cercavano. Dopo i 3 giorni più terribili della mia vita, ho capito che dovevo parlare e l’ho detto ai carabinieri.
Terribili perché?
Ero nel caos più completo, ero sotto shock. Per di più casa mia era assediata da giornalisti e fotografi. Finimmo per staccare il telefono. Vivevamo con le finestre chiuse e mangiavamo perché la vicina ci passava un sacchetto dalla finestra.
Ha mai pensato alle conseguenze, penali e non?
Uno dei freni era proprio il pensiero delle conseguenze. Subito dopo il fatto, per diverso tempo, mi è stato impossibile decidere qualsiasi cosa. Persino se bere un bicchiere d ‘acqua.
Se fosse stato al posto di Stefano, anche lei avrebbe chiesto al suo amico di intervenire?
Non so, dovrei trovarmici per saper rispondere. Capisco che a un essere umano si può chiedere di sopportare tanto, ma a tutto c ‘è un limite. La sofferenza spesso va oltre questo limite. Per lui forse è stato troppo.
Perché crede che Stefano le abbia chiesto di aiutarlo a morire nonostante i problemi che avrebbe potuto crearle?
E’ stato per disperazione. Oltre una certa soglia di dolore, scatta la disperazione. Ai suoi occhi non c ‘era più alcuna convenienza nel continuare a vivere. Anche il trapianto di cuore, che rifiutava categoricamente, non gli avrebbe reso la sua vita e le sue passioni.
Poteva esserci un’altra fine?
Se non lo avessi fatto io, avrebbe prima o poi trovato qualcun altro. Lui era irremovibile sulla decisione di lasciare.
Frequentava casa sua e conosceva i suoi genitori. Ha avuto modo di parlare con loro dopo la morte di Stefano?
Sono tornato a casa loro: l’ultima volta che c’ero stato Stefano era vivo, quando ci sono tornato lui era morto. Ed era morto perché lo avevo aiutato io. Si può solo provare a immaginare cosa ho provato. Quando ho avuto modo di riparlare con la madre di Stefano, mi disse: «Ho capito, tu lo hai fatto perché eri veramente suo amico». Anche il padre una volta, credo in un ‘intervista, disse che il mio era stato un atto d ‘amore. Non li sento da molto tempo… inevitabile. Avrei voluto richiamarli, ma so che quando vedono me vedono la persona che ha fatto morire il loro figlio.
Come definirebbe quello che ha fatto? Suicidio assistito, eutanasia, omicidio?
Omicidio del consenziente, come indica l ‘articolo 579 del Codice penale. Anche se forse la definizione più adatta è quella data dal mio avvocato: omicidio del richiedente.
Come si esce da una vicenda così grave?
Esiste un prima e un dopo nella mia vita. Quello che è successo è stato un terremoto. In questi anni ho fatto un percorso, non ancora concluso. Ho maturato la convinzione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Il trovarmi a spiegarlo al magistrato, ai miei genitori, ai genitori di Stefano alla fine mi ha aiutato. Mi ha aiutato anche il provvedimento legale: il viverlo, saggiarlo e arrivare al punto di ammettere che me lo meritavo. Tutto ciò, sommato al volontariato che facevo, ma che ho intensificato, mi ha dato la sensazione di rendere alla società qualcosa che gli avevo tolto.
Prova sensi di colpa?
I sensi di colpa naturalmente ci sono stati e ci sono. Anche se so che chi ha sofferto per causa mia, come i miei genitori e quelli di Stefano, mi hanno perdonato. Quel gesto non è figlio della mia indole cattiva, però lo stesso devo fare i conti con la mia coscienza.
Come ha reagito la sua famiglia?
L’aiuto dei miei genitori è stato fondamentale: non credo mi potesse capitare una famiglia migliore. Non mi hanno mai addebitato alcuna colpa, hanno sempre cercato di capire. Posso solo immaginare il loro dolore quando, ignari di tutto, si sono trovati alla porta di casa un maresciallo dei carabinieri che gli raccontò quello che era successo. Per quello che ne sapevano Stefano si era allontanato da casa e io ero andato a cercarlo. Non sospettavano niente e credo che non avrebbero mai potuto immaginarlo.
Parla mai di questa storia?
Con alcune persone mi sono aperto di più, ho conosciuto nuovi amici e con loro non ne abbiamo mai parlato, forse nemmeno lo sanno. È una cosa di cui chiaramente io non parlo volentieri. Paragono tutta questa storia a un capitolo di un libro. Un capitolo dopo averlo letto… si volta pagina e si continua. Non si strappano le pagine, ma neanche si rileggono in continuazione.
Qual è la sua vita?
Lavoro in un ‘attività commerciale. Ho molte passioni: musica, fotografia e continuo a studiare, mi mancano alcuni esami alla laurea. C’è poi il volontariato, che mi ha dato molto: oggi capisco di più gli altri. Ho imparato ad ascoltare di più, sono più disponibile, e più consapevole che nel darsi agli altri e nel mettersi a disposizione degli altri esistono dei limiti.
Cosa pensa oggi dell’eutanasia e degli ultimi episodi che hanno riportato alla ribatta il tema?
Capisco la difficoltà ad affrontare la sofferenza, sia fisica sia interiore. E capisco ancora di più il dolore di chi vede soffrire una persona che gli è cara. Ma arrivare a legiferare su questioni così delicate, dove ogni situazione è un caso a sé, credo sia difficile. Basta guardare tre casi: il mio, quello di Piergiorgio Welby e quello di Eluana Englaro. Come si possono confrontare? Sono così differenti. Quale legge potrebbe andar bene?
Il suo parere è cambiato dal prima a dopo la morte di Stefano?
Negli ultimi anni c ‘è stato un grande cambiamento di mentalità.
Pensa mai a Stefano? Che posto ha nella sua vita?
Porto questo orologio. Me lo ha regalato lui. E chiaro che è un pensiero costante. I primi tempi, quando passavo in macchina davanti al bivio che porta al casolare fatidico, stavo male. La presenza di Stefano c ‘è sempre: c ‘è il ricordo di una bella amicizia, di tanti bei momenti, ma anche di qualcosa di drammatico. Se chiudo gli occhi, vedo io e lui che parliamo. Parlavamo tanto, sempre.
Aiuterebbe ancora Stefano a morire?
Non lo rifarei in nessun caso, perché ho capito che c’è un limite a tutto e ho capito che non è una soluzione. E se per lui lo è stata, ha creato sofferenza alle persone che gli volevano bene, a quelle che ne vogliono a me. Oggi cercherei di affrontare la cosa diversamente, anche se quando ci si trova di fronte a persone così decise a morire, come Stefano, è difficile trovare la strada per riattaccarle alla vita. Ma aiutarlo oggi mi sembrerebbe una resa.