Ancona, gennaio 2008. Una donna al secondo mese di gravidanza si rivolge all’ospedale della città perché intende abortire. Mala lista d’attesa è troppo lunga, perciò ottiene in cambio un elenco di ospedali della regione a cui chiedere assistenza. Armata di santa pazienza e di telefono comincia la sua ricerca, ma quando incappa nel centralinista dell’ospedale di Iesi, per tutta risposta ottiene solo un sermone inarrestabile che ha lo scopo di dissuaderla dal suo «terribile intento».
San Bendetto del Tronto, anno 2005. Nella città marchigiana la legge 194, da quando è in vigore, non può essere applicata per mancanza di ginecologi non obiettori. Per questo un gruppo di dirigenti dell’Aied di Ascoli Piceno decide di andare a trovare il direttore generale dell’Asl, di centrosinistra, per proporre per le Ivg almeno una convenzione con la loro associazione, così come avviene nella loro città. La risposta lascia attonita la delegazione: «Ci disse che doveva sentire prima il parere del vescovo, perché non voleva nemici intorno», racconta l’assistente sociale Tiziana Antonucci.
Antonucci ha seguito recentemente un’inchiesta tra le donne che si rivolgono al consultorio Aied ascolano per richiedere l’Ivg: su 513 richieste, il 60% proviene da donne cattoliche praticanti. Donne che teoricamente sono contrarie all’aborto ma considerano il proprio caso personale «un caso eccezionale ». La regione Marche registra, secondo l’ultima relazione al parlamento del ministero della salute, quella relativa all’anno 2005, la più alta percentuale di medici obiettori d’Italia. Il 78,4% dei ginecologi contro una media nazionale del 58,7%, il 70,7% degli anestesisti obiettori a fronte del 45,7%, e il 52,9% dei paramedici contro il 38,6%.
In realtà i dati forniti all’Iss sono fermi al 2002 e quindi non facilmente comparabili con la media nazionale, segno che nemmeno vengono aggiornati come dovrebbero dalla regione. E come a San Benedetto del Tronto anche in molte altre città marchigiane non esistono medici non obiettori. In questo contesto non ci si può stupire dell’assurdo comportamento del centralinista di Iesi, ovviamente subito segnalato alla direzione sanitaria.
Milano, febbraio 2008. La signora Paola Bonzi, attivista del Centro aiuto per la vita (Cav) dell’ospedale Mangiagalli racconta su La Stampa: «Una volta mi sono precipitata alle sei del mattino da una ragazza che si trovava già nell’anticamera della sala operatoria per abortire». Sul caso le senatrici della Sinistra arcobaleno hanno presentato un’interrogazione parlamentare, per verificare se sia stato violato il diritto alla privacy e il rapporto di segretezza tra medico e paziente e se vi siano state interferenze del Cav nell’attività sanitaria ospedaliera.
Ma quello della clinica Mangiagalli è un centro molto particolare, ricco soprattutto: come denunciano i radicali milanesi, il 20 dicembre 2007 il governatore della Lombardia Roberto Formigoni firmò la delibera che stanzia 500 mila euro in suo favore mentre poco prima il comune di Milano aveva finanziato il Cav con 200 mila euro. «Non c’è stato alcun bando di concorso – spiega Valerio Federico, segretario dell’associazione Enzo Tortora – mentre centinaia di associazioni che lavorano con i carcerati, iminori, gli anziani o con le donne non riescono ad ottenere nemmeno un euro».
Anche la regione Lombardia si aggiudica, dopo Marche, Lazio, Puglia e Molise, il primato del maggior numero di medici obiettori. «Ma soprattutto sono almeno 15 le strutture dove non si effettuano le Igv, emen che meno gli aborti terapeutici, tra cui tre grandi nosocomimilanesi: il San Raffaele, il San Giuseppe-Fatebenefratelli e il San Pio X – aggiunge Federico – e a Milano i medici disponibili e capaci di fare un aborto terapeutico sono 6 o 7, non di più».
D’altra parte una legge regionale del 2000 prevede che i consultori privati accreditati, quasi tutti cattolici, possano escludere le prestazioni previste dalla legge 194 «in deroga a quanto stabilito dalle norme». Per ultimo, nel decreto lombardo del gennaio scorso che abbassò a 22 settimane e 6 giorni il limite per le Ivg, «la Regione promuove e auspica l’accoglienza negli ospedali dove sono presenti i centri di diagnosi prenatale delle associazioni dei genitori» delle persone portatrici di handicap.
Volontari che dovrebbero convincere le donne a non praticare la diagnosi ed accettare un eventuale feto malato. Quando nel 1978 la legge 194 venne varata, il numero di medici obiettori era solo leggermente più alto di quello attuale. Nel 1982, il primo dato completo raccolto dalla dottoressa Angela Spinelli, dell’Iss, parla del 59,3% di ginecologi obiettori e del 54,3% di anestesisti. Dieci anni dopo i ginecologi erano il 62,2%, gli anestesisti il 52,3% e i paramedici il 45,7%. Un numero in realtà troppo alto per raccontare il quadro vero dell’ obiezione di coscienza.
La maggior parte, dicono quasi tutti gli esperti in materia, sono obiezioni di comodo o di difesa dovute alla scelta di massa dei medici di rinunciare ad un lavoro scomodo e poco gratificante. Sei mesi dopo l’entrata in vigore della 194, un’inchiesta di Norma Rangeri pubblicata sul Manifesto raccontava di medici cattolici che, senza mezzi tecnici e spazi adeguati, non si sottraevano al loro dovere di cura della donna e continuavano a fare «tutto, comprese le Ivg».
Ma oggi, con l’introduzione della pillola abortiva Ru486 che permette di evitare l’intervento chirurgico tanto mortificante per le carriere dei medici, potrebbe cambiare qualcosa? Potrebbe diminuire il numero di obiettori? «Non credo proprio – risponde la ginecologa Laura Maria Olimpi dell’Aied di Ascoli Piceno -: per come si sta organizzando l’uso della Ru486, con la donna ricoverata per tre giorni in ospedale e quindi con grandi costi, credo proprio che la situazione possa perfino peggiorare ».