A caccia di cellule malate con le microsfere anti-tumore

di Donatella Barbetta
La specialista: «Maggiore efficacia e in anestesia locale»

Colpire solo i tessuti malati, evitando danni a quelli sani. È il sogno di chi combatte la battaglia contro il cancro e anche l’obiettivo della radiologia interventistica, la nuova frontiera dei trattamenti oncologici alternativi. Tra questi, quello di ultima generazione consiste nell’introdurre, direttamente nel fegato, microsfere che rilasciano sostanze in grado dì far regredire il tumore. In che modo? Lo chiediamo a Rita Golfieri, direttore dell’Unità operativa di Radiologia Malpighi dell’Azienda ospedaliero-universitaria Sant`Orsola-Malpighi di Bologna. «Ormai, sotto controllo dei raggi x, siamo in grado di far avanzare dei cateteri all’interno dei vasi di numerosi organi. Abbiamo avviato sperimentazioni per il trattamento dell’epatocarcinoma, una delle più frequenti neoplasie maligne. E benché la diagnosi precoce sia in aumento, il 50-70 per cento di questi tumori sono ancora diagnosticati in stadio non più operabile. Ecco allora che interveniamo noi. In anestesia locale, attraverso l’arteria femorale, vengono iniettate nel paziente microsfere del diametro di 25 micron – un micron è un millesimo di millimetro – che raggiungono il fegato. Così infondiamo farmaci direttamente nell’area tumorale, quindi con minori effetti tossici e maggiore efficacia. Il procedimento si chiama chemioembolizzazione. Inoltre possiamo ricorrere anche alla radioembolizzazione».

Vuoi dire che le microsfere possono anche essere radioattive?
«Sì. Questi minuscoli pallini vengono caricati con un isotopo radioattivo, l’Ittrio 90, che irradia selettivamente le cellule malate. Noi acquistiamo il prodotto in Australia. Per ogni paziente viene richiesta la dose necessaria, calcolata in precedenza,il cui effetto viene dimezzato se passano oltre 76 ore dal confezionamento al momento in cui lo iniettiamo. Si richiede quindi un’organizzazione perfetta della seduta di radioterapia: il paziente dovrà essere allentato per tempo così come l`intero staff, composto dal fisico sanitario, l’oncologo, l’epatologo e il radioterapista.»

Su quanti malati avete già applicato la radioembolizzazione?
«Finora abbiamo trattato 40 pazienti con tumori primitivi del fegato e metastasi e sappiamo che in tutto il mondo il numero arriva a poco più di 400. In Italia siamo stati tra i primi e attualmente il trattamento viene praticato anche al Regina Elena di Roma, al Policlinico di Udine e all’istituto Pascale di Napoli. Il criterio di selezione per il trattamento delle lesioni metastatiche prevede malati che non abbiano avuto risultati dopo tre linee di chemioterapia».

Rischi del trattamento?
«Sono legati alla radioattività indesiderata negli organi non bersaglio. Per questo i pazienti vengono sottoposti in precedenza a studi particolari per assicurarsi che la dose raggiunga solo il fegato».

Le percentuali di successo?
«Abbiamo osservato recessioni della massa tumorale nella maggior parte dei casi. Non ci sono gli effetti collaterali della chemioterapia tradizionale e, in genere, il paziente può lasciare l`ospedale il giorno successivo alla seduta».

Quale sarà l’ulteriore passo avanti?
«Caricare le microsfere con cellule embrionali o staminalí totipotenti per rigenerare i tessuti malati».