Bio-banche, la Turco aggiusta la mira.

di Carlo Bellieni
Dobbiamo complimentarci con il ministro Livia Turco. La sua ordinanza del 9 maggio 2007 sulla conservazione «altruistica e solidale» delle cellule staminali del cordone ombelicale, che salvaguarda l’impronta di «donazione» (come avviene per il sangue e gli organi dell’adulto) dalle derive che conducono verso una privatizzazione del sangue umano e un esempio di correttezza politica e scientifica.

Non si tratta soltanto di aver preservato un concetto politicamente forte quale quello della «donazione», di aver messo un argine ai rischi di «privatizzazione del corpo umano» (gia ricordati su queste pagine da Eugenia Roccella), di aver evitato uno spreco, inviato un corretto messaggio alla gente ed evitato discriminazioni su base economica. Quello che è davvero importante è il metodo seguito. Il ministro poteva assecondare varie voci nostrane, che reclamavano di poter disporre privatamente del sangue del cordone; oppure poteva fare i conti con l’evidenza della ricerca scientifica. Ha preferito questa seconda via seguendo le raccomandazioni delle massime autorità scientifiche internazionali, (l’American Academy of Pediatrics, l’American Academy of Obstetrics and Cynecology, il Comitato Francese di Bioetica, il Royal College of Midwifes), che spiegano che l’uso «per se stessi» del sangue del proprio cordone ombelicale non è giustificato. La ministra correttamente ha previsto la conservazione «privata» solo per i casi in cui questa ha una motivazione, altrimenti è sangue buttato via, o, nel più ottimista dei casi, conservato nell’ipotesi di futuri sviluppi della medicina. Dunque, il metodo è giusto. E consiste semplicemente nel prendere le decisioni dopo essersi domandati: «Fa bene alla salute?». Sembra banale… ma non è tanto frequente imbattersi in chi ragiona in questo modo. Avevamo già visto la ministra Turco usare questo criterio nel caso Welby, domandandosi non come far morire, ma come migliorare l’assistenza dei malati terminali, cioè domandarsi se «la morte giovasse alla salute» o se ci fossero altre vie per garantire il corretto trattamento di chi soffre. Come sarebbe utile se lo stesso metodo fosse seguito, per esempio, nel dibattito sulla droga «libera»: fa bene o fa male al cervello la marijuana, di cui si conoscono i legami con l’insorgenza di psicosi, la cui liberalizzazione l’American Academy of Pediatrics nel 2004 sconsigliava essendo documentato sia il rapporto con l’insorgenza di psicosi che l’alterazione di memoria e riflessi nei consumatori di cannabis? Chi di averla assunta si vanta sui media -e da questi pulpiti determina un pensiero che giunge fino alle sale dove si legifera-, si domanda se la cannabis è davvero innocua come pensano loro o se è dannosa per il cervello come dicono psicologi e pediatri? Avremmo tanti esempi per supportare un metodo, quello seguito dalla Turco, che è fondamentale e che potremmo applicare per gli esiti sulla salute (soprattutto di donne e bambini) delle tecniche di fecondazione, di nuovi metodi abortivi, o dei nuovi stili di convivenza. Mark Gibson, sulla rivista Obstetrics and Gynecology del giugno 2004, raccomandando la vigilanza su certe pratiche procreative, metteva in guardia proprio da chi di questo metodo se ne infischia; ricordava che purtroppo ancora risuona, inaspettato ma presente, il vecchio adagio del far west che così tragicamente recita: «Prima sparare e poi fare domande».