Le cifre dell’accanimento terapeutico

di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Accade spesso che un malato venga curato senza prospettiva alcuna di guarigione? Capita di frequente che venga prolungata medicalmente (artificialmente, con pratiche più o meno invasive, più o meno dolorose) la vita di chi, comunque, è destinato, irreversibilmente, a non farcela? Sono, questi e altri ancora, i difficili interrogativi che rendono il senso dell’istituto del Testamento Biologico (o Direttive anticipate): uno strumento giuridico (di cui si discute in Parlamento in queste settimane), finalizzato a tutelare il paziente nei confronti dell’accanimento terapeutico.

«A Buon Diritto. Associazione per le libertà» ha promosso la prima ricerca in Italia sull’opinione della classe medica nei confronti del Testamento Biologico. Un’anticipazione dei dati emersi da questo studio, realizzato da Enzo Campelli e da Enza Lucia Vaccaro, dell’Università «La Sapienza» di Roma, evidenzia come, secondo un campione rappresentativo (266 intervistati in 19 ospedali distribuiti sul territorio nazionale), l’accanimento terapeutico sia una pratica notevolmente diffusa. Il 57% dei medici intervistati (oncologi, anestesisti, rianimatori e appartenenti ad altre specializzazioni) riconosce che, nella prassi clinica, è «frequente» osservare situazioni di accanimento terapeutico; per il 36% si tratta di una eventualità «poco frequente» e solo per il 2% non si verificano «mai o quasi mai» simili situazioni. L’indagine, da cui traiamo questi dati, vena presentata giovedì prossimo, 23 novembre, in un convegno al Senato dal titolo «Il dolore e la politica.

Testamento biologico, accanimento terapeutico, liberta di cura» e vedrà intervenire, tra gli altri, il ministro della Salute, Livia Turco, e Ignazio Marino, presidente della commissione Sanità del Senato. E già questi dati, che rappresentano una parte esigua rispetto alla mole di informazioni raccolte, meriterebbero ampia discussione e attenta analisi. L’accanimento terapeutico emerge come una pratica ampiamente diffusa e come un nodo irrisolto, rispetto al quale si fa sempre più vistoso il vuoto normativo vigente. Le questioni “di vita e di morte”, dunque, si fanno sempre più centrali, e salienti, nel dibattito pubblico. E la politica, lentamente e faticosamente, sembra cominciare a farsi carico di quanto di più umano (e vivo) vi sia nell’esperienza di ognuno: il dolore, appunto. Che non rappresenta un “semplice” stato di sofferenza, ma è divenuto, piuttosto, fattore sintomatico e critico di molte vicende patologiche. Il continuo progresso delle scienze mediche e delle biotecnologie rende spesso impalpabile il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico; e quel confine sfugge, in genere, alla capacità di conoscenza e di controllo del diretto interessato: il paziente.

È in virtù di questo progresso e di questa “sottrazione di autonomia” che nascono casi quali quelli segnalati dall’Associazione Luca Coscioni. E sono emblematiche le parole che Piergiorgio Welby usa per descrivere lo stato in cui la malattia l’ha ridotto: «La distrofia muscolare progressiva è una delle patologie più crudeli; pur lasciando intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti: da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, poi arriva l’insufficienza respiratoria e la tracheotomia. Il cuore, di solito, non viene colpito e l’esito infausto, come dicono i medici, si ha per i decubiti o una polmonite. lo ho raggiunto l’ultimo stadio: respiro con l’ausilio di un ventilatore polmonare, mi nutro di un alimento artificiale (Pulmocare), parlo con l’ausilio di un computer e di un software». Per quanto atroce possa essere la condizione qui descritta, se ne possono determinare di ancor più mortificanti e degradanti. È vero, infatti, che oggi sappiamo che il cuore può continuare a battere anche quando è sopravvenuta la morte cerebrale; e che si può sopravvivere per dieci o vent’anni in stato vegetativo permanente: ma questo vuol dire che – grazie a macchine sofisticate – la persistenza della vita non corrisponde sempre all’esistenza di una persona, dotata di sensibilità e di volontà e capace di esperienza e relazione.

Di fronte a casi di questo genere, non esiste un orientamento medico, o legislativo, univoco, capace di prevedere una prassi clinica per ogni tipologia patologica: e in grado di indicare una metodologia d’intervento e di “soluzione” rispetto alla complessità delle questioni in gioco. E se ciò appare ovvio e normale, non altrettanto pacifico ci appare il fatto che, parimenti, sia il malato stesso (il titolare di quell’esperienza e di quel corpo dolente) a non disporre di alcuno strumento di tutela del valore delle sue scelte. È oramai paradigmatico, in tal senso, il caso di Eluana Englaro: in stato vegetativo permanente dal 1992, questa giovane donna, che vive senza possibilità alcuna di tornare a uno stato di coscienza, continua ad essere alimentata e idratata artificialmente: continua, cioè, ad essere tenuta in vita. Suo padre ha più volte chiesto che fosse “lasciata morire”, che le fossero interrotte alimentazione e idratazione, per porre fine alla sua agonia. La riposta della magistratura è stata negativa.

Forse il suo caso rientra tra i molti riconosciuti da quella maggioranza di medici, che vedono l’accanimento terapeutico ridotto a routine clinica; forse quella moltitudine di casi, quell’enorme “scialo di dolore”, merita una soluzione (sia pure parziale e imperfetta): che consista semplicemente nel dare, a ciascuno di noi, la possibilità di decidere della propria vita e della propria morte, in coscienza e autonomia. Per quanto e fin quando è possibile.
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