Sull’eutanasia non facciamo i guelfi e ghibellini

di Luigi Covatta
Il principio del limite etico da imporre alla ricerca scientifica e tecnologica, in altre circostanze difeso con vigore dalla Chiesa cattolica, viene ora più o meno consapevolmente evocato dai laici favorevoli all’eutanasia.

Senza scienza e tecnologia, infatti, non ci sarebbero né la spina che alcuni vogliono staccare prima che un apparecchio abbia registrato l’encefalogramma piatto, né le altre protesi capaci di prolungare artificialmente la vita dei malati terminali. A nessuno sfugge, ovviamente, la pur sottile differenza che dal punto di vista etico passa fra protesi meccaniche e protesi biologiche. Così come, peraltro, a nessuno dovrebbe sfuggire che altrettanto sottile è la differenza che passa fra difesa della sacralità della vita e difesa della sua dignità. Ma il confronto non è fra due diversi e opposti universi etici bensì fra diverse gerarchie di valori tutti riconoscibili nella medesima morale.

Perciò sarebbe auspicabile che i nostri parlamentari, nell’affrontare la questione che, con grande correttezza costituzionale e civile, ha loro sottoposto il presidente Napolitano, non eludessero le questioni di principio, ma anzi le approfondissero fino alle radici, e ci risparmiassero invece (ma questo vale anche per questioni di minor momento) tanto le dichiarazioni identitarie quanto le furbizie elusive. Per quanto paradossale possa sembrare, infatti, in questo caso e più facile dialogare e capirsi se si ha il coraggio di andare alla radice del problema, sviscerando esplicitamente le questioni di principio prima ancora di legiferare, che non se si sceglie, pur di legiferare, di cercare un compromesso al ribasso, lasciando le questioni di principio per i talk show e i comizi domenicali. Per ottenere il risultato, e cioè una legge, appunto, di principi sobria e senza troppi fronzoli e codicilli, c’è solo un ‘altra condizione da adempiere: che ciascuno faccia la sua parte.

Che faccia la sua parte il potere laico, regolando quel poco che può regolare e rinunciando ad outrances antireligiose, o a pretese di ingegneria sociale che sono il lascito più inquietante del Novecento, e che sono sempre l’anticamera del totalitarismo, se è vero, com’e vero, che anche la strada dell’eugenetica nazista era lastricata di buone intenzioni socialdemocratiche e progressiste. E che faccia la sua parte anche la Chiesa, rivendicando, più che un comma, lo spazio che è proprio delle chiese, quello cioè del governo di situazioni che nessuna legge può (e deve) regolare. Senza dimenticare che per istituire il Cottolengo non ci fu bisogno di nessuna legge, e che di leggi non c’è bisogno per indirizzare rettamente la coscienza di ciascuno. Anche per questo, del resto, la Chiesa cattolica ha sempre diffidato del potenziale totalitarismo statale e teorizzato l’autonomia della società civile e dei suoi “corpi intermedi”.

E anche per questo quando, negli ultimi decenni, si è misurata con la complessità della società contemporanea, ha rivalutato la soggettività della coscienza individuale, caricandola di responsabilità non delegabili agli apparati, fossero pare quelli ecclesiastici. Quanto ai medici e agli scienziati, il limite etico se lo devono dare innanzi tutto da soli. Gli verrà più facile se potranno operare in un tessuto civile che nella discussione sui principi e sui valori sa trovare convergenze e non occasioni di rissa tribale fra guelfi e ghibellini. E sarà, come deve essere, non un limite esterno, ma un limite interiore che indirizza la loro stessa ricerca e che aiuta anche a trascendere la tentazione dell’ubris scientista, altro lascito novecentesco di cui si può fare a meno.