Radicale fino all’ultimo

di Mattias Mainiero

La morte di Coscioni.

C’è una lettera di Luca Coscioni datata febbraio 2001. Cinque anni fa. Il presidente dei Radicali italiani è già affetto da sclerosi laterale amiotrofica, una malattia terribile. La chiamano anche "Sla", acronimo asettico, o morbo di Lou Gehrig, quello che ha colpito Steven Hawking, professore e fisico inglese. La scienza è impotente. Non conosce la cura, non conosce neppure le cause della sclerosi. Sa solo che il morbo, in futuro, si potrà forse curare utilizzando le cellule staminali, e che non tutti sono d’accordo, che c’è chi vorrebbe imporre limiti alla ricerca, chi non considera eticamente corretto il ricorso agli embrioni per reperire e studiare le staminali, chi suggerisce altre strade.

A Coscioni la malattia è stata diagnosticata negli anni Novanta, quando insegnava Economia ambientale all’Università di Viterbo. Si stava allenando per partecipare alla maratona di New York. Poco dopo è già in sedia a rotelle, completamente paralizzato. Non può neppure parlare. Per comunicare utilizza un computer, un sintetizzatore vocale. Il computer scrive, mediamente una parola ogni trenta secondi, il sintetizzatore legge e parla. Nella lettera, inviata a sostegno della propria candidatura alle elezioni, Coscioni si rivolge ai Premi Nobel e agli uomini di scienza. Spiega che ha deciso di presentarsi “per difendere la libertà di ricerca e di cura”. Chiede di sostenere la sua causa e quella degli altri ammalati di battersi per la ricerca sulle cellule staminali, di appoggiare la proposta di legge della lista Bonino, legge di iniziativa popolare sulla procreazione assistita. Lui è il primo firmatario. Scrive: “Lottare anno dopo anno, mesi dopo mese, giorno dopo giorno, ora dopo ora, contro la malattia che mi ha colpito, non ha dato un senso alla mia vita. Una malattia, e la sofferenza che ne deriva, non hanno mai un senso.

Il senso, alla mia vita, lo sto dando io, vivendola, come mi è consentito di viverla. Amando, odiando, facendo politica, una delle mie passioni». Luca Coscioni, leader dell’Associazione che porta il suo nome e prossimo capolista alle Politiche per la "Rosa nel pugno", si è spento ieri, a 39 anni dieci dopo l’insorgere della malattia. Si può essere d’accordo o meno con quella frase. I cattolici diranno di no, assolutamente no. C’è la sofferenza di Cristo in croce a spiegarci che anche la malattia ha un senso, anche e forse soprattutto la malattia, il calvario, e che l’embrione è vita, sacra e inviolabile, che c’è un limite al di là del quale la scienza non può andare, che non è lecito curare uccidendo. I laici stanno inorridendo. Marco Pannella, da Radio Radicale, ha da poco detto che Luca è stato ammazzato “ammazzato anche dalla qualità di questo Paese, dalla sua oligarchia, che lo corrompe e lo distrugge”. Discutono, laici e cattolici discutono animamente, litigano anche, e quella frase resta: ”vivendo la vita come mi è consentito di viverla. Amando, odiando, facendo politica”.

Resta l’insegnamento di un uomo coraggioso, che non si è mai dato per vinto, che ha colloquiato per anni, lui che non poteva parlare, a viso aperto con la morte, in modo schietto, senza neppure il conforto consolatorio della fede, e senza mai perdere la speranza, un uomo che ha partecipato a sit-in di protesta ed è arrivato ad autoridursi i farmaci per denunciare la carenza di informazione da parte della tv sulla libertà della ricerca scientifica. Si può essere d’accordo o meno, ma bisogna togliersi tanto di cappello, e bisogna anche ringraziare Luca Coscioni, se non altro perchè ha restituito alla politica -la politica che è troppo spesso solo poltrone, potere, equilibrio di forze, convenienza – un senso, un obiettivo. Perchè ha lottato ed ha vissuto la sua malattia come testimonianza delle idee e dei valori nei quali credeva. E perchè, comunque, ci ha fatto ragionare. Ha scritto Josè Saramago, portoghese, uno dei cinquanta Premi Nobel che firmarono nel 2001 l’appello a sostegno della candidatura di Luca Coscioni alle elezioni: “Attendevamo da molto tempo che si facesse giorno, eravamo sfiancati dall’attesa, ma ad un tratto il coraggio di un uomo reso muto da una malattia terribile ci ha restituito una nuova forza».

Quella volta, Luca Coscioni non ce la fece: candidato capolista non fu eletto. Pochi mesi dopo già lottava per entrare a far parte del Comitato nazionale di Bioetica. L’anno successivo fondò la sua associazione per la libertà di ricerca scientifica. Instancabile. Luca Coscioni era questo, al di là della clonazione terapeutica, della candidatura come capolista accanto ad Emma Bonino e dell’associazione che è stata nel 2005 promotrice della campagna referendaria contro la legge 40, quella che vieta la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Era il testimone laico della scienza, quella stessa scienza – ha scritto – che è ”anche tecnologia informatica mediante la quale l’oceano di conoscenza e di ignoranza, di disperazione e di speranza, di amore e di odio, oceano che è in me, che è me,e che il caso avrebbe voluto costringere al silenzio, nello spazio angusto di una bottiglia, può rifluire, seppur lentamente, verso voi tutti».

Paradossalmente viene in mente Pascal, che pure considerava la scienza sovrana nel suo ambito e del tutto inutile per capire il senso della vita: ”L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Quand’anche l’universo lo schiacciasse l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero». Con un uomo così si può non condividere nulla, e in tanti non hanno condiviso nulla, ma ce ne fossero altri come lui sarebbe solo un bene.