Cellule staminali. Invece degli embrioni

Gianna Milano
Nei laboratori fervono le ricerche per trovare alternative alla clonazione terapeutica. Lo scopo: creare le cellule che danno luogo a ogni tipo di tessuto, superando gli scogli etici.

Mentre si è da poco spento in Italia il dibattito sull’utilizzo di embrioni umani a scopo di ricerca (era uno dei quattro punti chiave del referendum sulla legge 40 per la procreazione assistita dello scorso giugno). Mentre oltreoceano si attende la decisione del Senato americano, che deve pronunciarsi sulla possibilità di allargare le maglie delle restrizioni per la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane (il voto viene dopo quello del Congresso che si è già espresso a favore, in contrasto con la posizione di George Bush).

Mentre nel mondo politico si cerca una soluzione alla questione etica sull’opportunità di usare embrioni per potenziali terapie future con cellule staminali embrionali, capaci di dar luogo a qualunque cellula o tessuto (finora mai testate sull’uomo), gli scienziati nei laboratori vanno in cerca di alternative.

L’obiettivo: creare staminali umane con analoghe proprietà di quelle embrionali, senza coinvolgere gli embrioni già esistenti, quelli conservati nei freezer non più destinati a un uso procreativo, e quelli prodotti con il trasferimento nucleare: la cosiddetta clonazione terapeutica.

E, a quanto pare, le soluzioni tecnologiche sono sempre più vicine. È di questi giorni la notizia dell’esperimento dei ricercatori dell’Università di Harvard e dell’Howard Hughes medical institute a Cambridge, negli Usa: sono riusciti a fondere una cellula adulta della pelle, fibroblasto, con una staminale embrionale e a riprogrammarla, ossia a riportarla alle caratteristiche dello stadio embrionale.

«Un risultato di rilievo, oltre che un esperimento di biologia elegante» dice Elena Cattaneo, ricercatrice al Dipartimento di scienze farmacologiche e al Centro di eccellenza per le malattie neurodegenerative dell’Università di Milano. «I ricercatori hanno osservato come il contenuto della staminale embrionale fosse in grado di dominare su quella della cellula adulta. E le cellule ibride ottenute si comportavano come staminali embrionali».

In teoria, secondo Kevin Eggan che con Douglas Melton ha diretto lo studio (su «Science»), partendo da questa fusione si potrebbero ottenere una varietà di cellule specializzate e «personalizzate». «Si è visto che potevano essere indotte a differenziarsi in cellule mature: neuroni, follicoli piliferi, cellule muscolari ed endoteliali, quelle che rivestono l’intestino. Le nuove cellule sono quindi totipotenti come le embrionali, in quanto danno origine a tutti i tipi di cellule dell’organismo» dice Eggan.

Se i ricercatori riusciranno a privare la cellula staminale embrionale del suo dna, obiettivo per ora irto di ostacoli, le cellule ibride potrebbero essere usate per produrre linee di staminali embrionali personalizzate. La presenza di un doppio patrimonio genetico costituisce infatti un problema, secondo John Gearhart della Johns Hopkins university, esperto di cellule staminali. «Bisogna però tenere gli occhi fissi sul pallino.

Perché se la tecnica dovesse funzionare sarebbe un notevole passo avanti». Molte cose restano da chiarire sull’alchimia genetica che ha fatto prendere il sopravvento ai cromosomi della cellula staminale embrionale, riprogrammando quelli della adulta. Per ora i ricercatori non sanno se a dare lo start alla fusione sia il dna della cellula staminale embrionale o le sostanze in essa contenute. Cosa determina l’ambiente? Qual è il ruolo dei cromosomi della embrionale? E se si tolgono, si riesce lo stesso a riprogrammare?

Molte le domande ancora senza risposta. Secondo Luciano Conti, del team di Elena Cattaneo, lo scenario nuovo che si apre con lo studio di Eggan e Melton è quello della riprogrammazione delle cellule adulte. Il Santo Graal delle staminali è trovare il modo di convincere le cellule adulte a compiere il processo all’indietro e tornare a essere indifferenziate, recuperando la plasticità delle staminali embrionali.

«Se si riusciranno a individuare una per una le molecole (enzimi, proteine…) riprogrammatrici, si potranno usare per capire quali sono i geni che nei cromosomi delle staminali embrionali hanno un ruolo attivo. Lo si potrà fare andando per esclusione, inibendo questo o quel gene» ipotizza il ricercatore che, con Austin Smith, dell’Università di Edimburgo, ha pubblicato su PLoSBiology i risultati di uno studio nell’ambito del consorzio europeo EuroStemCell.

Partendo da cellule staminali embrionali di topo, i ricercatori italiani e scozzesi sono riusciti a moltiplicare in laboratorio cellule neurali staminali fino a ottenere popolazioni omogenee da cui derivare le diverse cellule mature del cervello. «Utilizzando le conoscenze ricavate dalle cellule staminali embrionali, siamo poi riusciti a ottenere la stessa popolazione cellulare dal cervello adulto» afferma Conti.

La ricerca deve procedere, a suo parere, in parallelo su cellule embrionali e adulte. E il passaggio dal topo alle cellule umane è già contemplato. Varie idee sono emerse in questi pochi anni (era il 1998 quando James Thomson isolò per la prima volta cellule staminali da un embrione umano) per superare gli ostacoli etici che il ricorso a ovociti, embrioni e clonazione terapeutica comportano. Ma molte delle proposte avanzate restano per ora sulla carta.

Tra gli ambiti di indagine più astratti che reali (sono in corso studi preliminari e non se ne conoscono i risultati) c’è il cosiddetto trasferimento nucleare «alterato» proposto da William Hurlbut, professore di biologia umana e bioeticista alla Stanford university.

Per ottenere nuove linee cellulari embrionali con caratteristiche genetiche volute, propone prima di trasferire il nucleo della cellula somatica del donatore, come prevede la tecnica di trasferimento nucleare, e poi di inattivare i geni con un ruolo chiave nello sviluppo dell’embrione in modo da impedirne la progressione.

Lo scopo: creare una cellula riprogrammata capace di dar luogo a staminali embrionali «su misura», ma privata dei segnali per formare un embrione. Hurlbut, tra l’altro consulente per il Council on bioethics di Bush, ha dichiarato il 12 luglio davanti al Senato: «Le entità così ottenute non hanno status morale di embrioni umani». Niente embrione, quindi, niente embrione distrutto.

Non proprio, ha obiettato Richard Doerflinger, direttore del segretariato delle attività Pro-Vita della Conferenza cattolica episcopale americana: «Un embrione che vive poco è pur sempre un embrione» anche se la manipolazione genetica, interferendo sul suo sviluppo, lo rende «anomalo». Hurlbut ha suscitato anche la reazione infastidita di scienziati, tra cui José Cibelli, ora alla Michigan university ed ex vicepresidente della Act (Advanced cell technology); Cibelli sostiene di aver depositato nel 2002 un brevetto per la tecnica di cui parla Hurlbut.

Lo stesso anno anche Hans Schöler, biologo dello sviluppo all’Istituto Max Planck di Münster, dice di aver proposto una tecnica analoga con una leggera variante. Ma le perplessità, brevetti a parte, sulla «soluzione» di Hurlbut è che un’idea «affascinante ma astratta» possa distrarre il voto del Senato per un’apertura alla ricerca sulle staminali embrionali.

Un’alternativa agli embrioni, annunciata il maggio scorso sul «New Scientist» che non ha mai avuto riscontro nella letteratura scientifica, è quella di Yuri Verlinsky, del Reproductive genetics institute di Chicago: asserì di aver prodotto linee di cellule staminali embrionali con corredo genetico del donatore adulto evitando la formazione dell’embrione.

Mentre la tecnica base della clonazione terapeutica consiste nel trasferimento del nucleo di una cellula adulta nell’ovocita enucleato, che porta alla formazione dell’embrione da cui ricavare staminali embrionali, Verlinsky avrebbe agito direttamente su staminali embrionali preesistenti privandole del nucleo (operazione che gli scienziati considerano ardua) e le avrebbe poi fuse con cellule adulte, il cui nucleo risulterebbe riprogrammato.

Verlinsky si mostra certo nell’intervista di poter garantire una via d’uscita alla formazione dell’embrione con la clonazione terapeutica. La tecnica con cui il maggio scorso il sud-coreano Woo Suk Hwang, ha creato 11 linee di cellule staminali embrionali geneticamente identiche a quelle di pazienti colpiti da malattie, dal diabete alle lesioni spinali.

Anche l’attivazione della cellula uovo apre la strada alla possibilità di disporre di staminali evitando il dilemma di usare embrioni. Si stimolano con un trucco gli ovociti a intraprendere la stessa sequenza di eventi cui porta la fecondazione con spermatozoi. Il risultato si chiama «partenote»: un organismo partenogenetico originato da una cellula uovo non fecondata.

Secondo Ann Kiessling, della Bedford stem cell research foundation a Somerville, Usa, la partenogenesi può essere più efficiente del trasferimento nucleare. Gli esperimenti con ovociti di primati dicono che si attivano molto rapidamente, e «circa il 25 per cento sopravvive fino allo stadio di blastocisti». Percentuale doppia rispetto a quella ottenuta dai sudcoreani con il trasferimento nucleare.

Karl Swann, biologo della riproduzione, ha scoperto una sostanza chimica che pare efficace nello stimolare la divisione cellulare degli ovociti, anche di quelli non fecondati a contatto con lo sperma. Ciò aumenterebbe la disponibilità degli ovociti. «I centri per la fecondazione assistita ne scartano a migliaia» ha detto Swann a Science.

Ma ammette di non aver ancora derivato alcuna linea cellulare. Se ci riuscisse, dice Robert Lanza, direttore della Act, i benefici sarebbero enormi. Il fatto che posseggano un solo patrimonio genetico riduce la complessità delle proteine di superficie e la possibilità di rigetto da parte del sistema immunitario. L’ideale per ricavarne banche di cellule staminali, secondo Lanza.

Non tutti sono d’accordo sul fatto che il problema dell’immunità possa essere risolto con le cellule ricavate dai partenoti. José Cibelli e George Daley, della Harvard University, stanno verificando nei topi «la trapiantabilità» delle cellule ottenute da partenoti. E avvertono: «Potrebbero lo stesso scatenare il rigetto del sistema immunitario che riconosce le cellule estranee ma anche quelle prive di un’identità immunologica».

In alternativa alla clonazione Donald Landry e Howard Zucker, della Columbia university a New York, propongono di usare gli embrioni, creati per la fecondazione in vitro, considerati non utilizzabili perché il loro sviluppo si è arrestato, ma le cui cellule continuano a funzionare.

Sembra che un 60 per cento di embrioni siano scartati. I due hanno iniziato a monitorare centinaia di embrioni che hanno smesso di dividersi. «Vogliamo capire quali sono le caratteristiche chimiche o genetiche degli embrioni che non danno più segnali di sviluppo per 24 ore» dicono. «Se fosse possibile identificarli, così come ci sono linee guida per la morte cerebrale, ci saranno per stabilire se un embrione non è più vitale».

Sarà possibile ricavare da questi embrioni delle linee cellulari? È scettico Conti: le condizioni dell’embrione determinano la qualità delle linee cellulari. Lanza propone un altro metodo per ricavare staminali embrionali: basterebbe prelevare una singola cellula dall’embrione, come nella diagnosi genetica preimpianto. L’embrione proseguirebbe lo sviluppo senza danni e da quell’unica cellula, se si riesce a farla dividere, si potrebbero ottenere linee cellulari. «Non è così semplice. Alcuni embrioni, dal 10 al 20 per cento, possono venire danneggiati dal prelievo» dice Conti.

Nello scenario delle alternative alla clonazione c’è anche il citoplasto artificiale con il quale si potrebbe evitare di ricorrere a ovociti per riprogrammare i nuclei di cellule somatiche, come si è fatto con la pecora Dolly, e ottenere staminali senza produrre un embrione. «Se riuscissimo a ricreare un ambiente artificiale (un citoplasto) in cui il nucleo di una cellula somatica adulta possa essere riprogrammato e cominci a moltiplicarsi, il gioco sarebbe fatto» dice Carlo Alberto Redi, membro dell’Accademia dei Lincei.