IL PAESE SENZA RICERCA CHE UCCIDE IL SUO FUTURO (la Repubblica)

<b>24 Gennaio 2003</b> – E' un momento cruciale nella storia dello sviluppo culturale e scientifico di questo Paese. Quelle che sono le tre grandi vie del Nuovo, la ricerca sulle telecomunicazioni, sull' informatica, sulle biotecnologie, procedono ad alta velocità, spinte dalla forza delle idee. Nel passato, materie prime e manodopera a basso costo potevano fare la differenza nello sviluppo economico di una nazione. Oggi sono le idee, la passione delle nuove generazioni a spingersi sempre oltre, alla esplorazione di nuove frontiere, a distinguere un Paese dall' altro. E' la ricerca, la capacità che un Paese ha di credere e spendere e investire sulle attività della mente, a creare diverse condizioni sociali e culturali di un popolo. Ma la ricerca, in Italia, marcia faticosamente. I nostri migliori cervelli scelgono di andare a lavorare all' estero.

Le strutture – indispensabili per un ricercatore – sono deficitarie. I soldi che si investono sono pochi. E questo crea un quadro sociale, oltre che politico-economico e, ovviamente, scientifico, che ci deve preoccupare. Le nuove generazioni di scienziati, quelli più motivati e passionali, vengono mortificate; i risultati dei prodotti della mente, le idee, si fanno progressivamente più scarni. Da condizioni simili – è questo il grande rischio che voglio segnalare – non può che nascere un' Italia culturalmente arretrata, segnata dalla obsolescenza scientifica e tecnologica. Un Paese zoppo, che nei prossimi anni si ritroverà accanto paesi che invece sono in grado di correre con gambe sempre più potenti ed efficienti.

Sono preoccupato, come scienziato e come italiano, di quanto ci potrebbe accadere se parlamento e governo non decidessero di affrontare questa situazione. Occorrerebbe in realtà una "Grande Alleanza per la Ricerca", ideare e costruire un progetto ad alto valore scientifico che cominci ad insegnare ai ragazzi delle scuole medie il primato del cervello e delle idee, la cultura della razionalità e della metodologia scientifica, il rifiuto della superstizione e della approssimazione. Per poi creare una serie di istituti scientifici di ricerca dove i nostri migliori talenti possano dedicarsi al loro lavoro.

Bisognerebbe che ciascun ospedale italiano, così come avviene negli Stati Uniti, avesse un centro per la ricerca, in modo che ogni scoperta possa essere trasmessa al clinico di quell' ospedale, anche al clinico più tradizionalista che non si sposta dalla routine dell' intervento. All' Istituto europeo di oncologia di Milano, ad esempio, è condizione di qualsiasi assunzione il fatto che la ricerca deve essere parte integrante del lavoro di ciascun professionista. Ogni settimana, alle sette e trenta del mattino, si tiene una conferenza – in lingua inglese – in cui si mette al corrente l' intero staff medico dell' Istituto dei progressi fatti da questa o quella ricerca.

C' è un modello che mi piace segnalare. In Gran Bretagna il governo finanzia la costruzione delle strutture e la messa a disposizione di macchinari, ma spetta al singolo ricercatore – con la qualità dei suoi studi e del suo lavoro – procurarsi i fondi necessari per portare avanti la sua ricerca. Il sistema dei grant, delle elargizioni private, di solito funziona benissimo. Si tratta in sostanza di una piattaforma a doppio binario: lo Stato finanzia le strutture, i privati portano avanti le idee e le ricerche. Ma anche per avviare il meccanismo di questa strada mediana, occorre un "Grande Progetto". E soprattutto occorre che la politica si convinca della bontà dell' investimento.

E' facile ottenere consenso quando si inaugura un' autostrada o un ospedale, un consenso che paga elettoralmente e in tempi brevi. E' difficile ottenere consenso quando si investono energie e denaro sulla ricerca, i cui risultati concreti arrivano a distanza di dieci-quindici anni (io ho pubblicato un paio di mesi fa una mia ricerca iniziata nel 1968…). E' difficile, certo, ma è ormai diventata una priorità per ogni nazione industrialmente avanzata se vuole evitare la marginalizzazione scientifica e, di conseguenza, anche economica.

<i>di Umberto Veronesi</i>