<b>27 Giugno 2003</b> – Non potevano essere più puntuali gli organizzatori del forum «Ricerca sulle cellule staminali: promesse e problemi» che ha riunito alcuni fra i migliori scienziati del mondo all'Università Cattolica di Roma martedì scorso. Sotto gli auspici dell'anziana genetista e biologa inglese Anne McLaren, membro del comitato etico della Commissione europea, e del biologo molecolare dell'Istituto superiore di sanità Cesare Peschle, gli organizzatori dell'incontro (Elena Cattaneo, Giulio Cossu, Eduardo Fernandez ed Eugenio Parati) in occasione di un congresso dedicato agli avanzamenti nella cura del cancro al cervello hanno messo assieme i rappresentanti della ricerca più avanzata, le associazioni di pazienti e alcuni giornalisti. Il giorno dopo, infatti, c'è stato il voto delle delegazioni dei diversi paesi nel Comitato consultivo (per le scienze della vita) incaricato di supportare il programma per la costituzione del cosiddetto «spazio europeo della ricerca» previsto nel VI programma quado della ricerca della Ue. Il voto era per approvare le linee guida destinate a chi deve dare una valutazione etica alle proposte di ricerca nel campo delle cellule staminali finanziate con i fondi della Commissione che la Ue si prepara a esaminare. Progetti che per la moratoria in corso fino a dicembre possono includere solo ricerche su staminali embrionali già isolate (ma ambiguamente non si dice da quando: in pratica se qualcun altro ha finanziato la messa in provetta delle cellule, secondo il protocollo approvato, la Commissione sarebbe autorizzata a finanziarne la ricerca). Ma il tentativo degli organizzatori del forum si spingeva oltre: mettere in discussione le riserve etiche che verso questo tipo di ricerche nutrono ancora gli ambienti cattolici e farlo coinvolgendo anche le molte associazioni di pazienti delle malattie più terribili. Riserve che sono legate all'uso di due tipi di cellule staminali: quelle embrionali propriamente dette, che provengono dalle blastocisti (quando l'embrione, di pochi giorni, è un gruppetto di cellule indifferenziate con una cavità centrale), dotate di una grande plasticità, che consente loro di dare origine a tutti i tessuti, e quelle che provengono dai feti ma sono «adulte», cioè parzialmente differenziate, e si comportano da progenitori solo di alcuni specifici tessuti. Le cellule staminali «adulte» classiche invece non pongono tutti questi interrogativi etici: sono quelle presenti in tutti noi per riparare o sostituire i nostri tessuti durante il corso dell'esistenza.
Se le cellule adulte fossero facilmente coltivabili in laboratorio e «riprogrammabili» per costituire i tessuti di interesse, questo spazzerebbe via ogni remora etica. Anche se, come sottolineano i ricercatori, nessun tipo di staminali presenta garanzie di successo assoluto o di futura efficacia clinica, né sarebbe saggio da parte di ricercatori appuntare le proprie speranze terapeutiche su un'unica strategia. Si era recentemente fatta strada l'ipotesi che le staminali adulte potessero essere altrettanto plastiche delle embrionali, ma i risultati sono molto controversi. Le cellule embrionali hanno invece mostrato qualche potenzialità in più, in parte dimostrate in parte ancora da capire. E di questi ultimi risultati si è parlato alla Cattolica.
Ronald McKay lavora presso il National Institute of Health a Bethesda (Usa) e ormai da molti anni si occupa di ricerca sulle staminali embrionali, in particolare su quelle del sistema nervoso. I risultati che ha presentato, recentemente pubblicati su Nature, sono incoraggianti. In studi sui topi il suo gruppo è riuscito a coltivare in vitro cellule staminali embrionali in grande quantità e a indurne la differenziazione in neuroni dopaminergici, quelli che vengono danneggiati quando si viene colpiti dal morbo di Parkinson. Un risultato importante perché i principali limiti all'utilizzo delle staminali embrionali sono di poterle coltivare e di riuscire a indurre la differenziazione solo nel tipo di cellule che interessano. Inoltre, trapiantate nel topo modello di Parkinson, le staminali diventate neuroni hanno indotto un recupero completo dalla malattia.
«Sono qui a raccontare fatti – ci dice McKay – Siamo riusciti a dimostrare che le staminali embrionali hanno grandi potenzialità. Mi rendo conto che soprattutto in Italia esiste un problema etico. Ma anche oggi mi sono accorto che molte personalità della chiesa sembrano più aperte e cercano di trovare una strada per superarlo».
Anche negli Stati Uniti il dibattito non è sopito: nel suo primo discorso televisivo ufficiale, il 9 agosto 2001, il presidente George W. Bush aveva posto dei paletti: sì all'utilizzo di linee cellulari già presenti, no a finanziamenti pubblici per nuove linee cellulari di staminali. «Le persone hanno credo diversi e anche molte paure – prosegue McKay – con questi dobbiamo confrontarci e ragionare. Quello che non possiamo ignorare nel dibattito è che tecnicamente oggi le staminali possono funzionare. Un elemento che non c'era ai tempi della decisione di Bush».
Austin Smith lavora invece all'Institute for stem cell research all'università di Edimburgo. Più diretto di McKay, Smith affronta subito il problema centrale: «Una blastocisti di sei giorni è vita umana ma non è una persona umana, non è una entità a sé stante», dice. «Un embrione senza l'utero di una donna non può svilupparsi in nessun modo oltre lo stadio in cui si trova: questi embrioni sono destinati a morire o a rimanere congelati per sempre. Oltretutto l'obiezione che sarebbero dotati di anima non ha senso: in questo stadio, una volta impiantati in un utero, potrebbero ancora dividersi in due e diventare gemelli».
Il fatto è che nei congelatori dei laboratori di tutti i paesi, Italia compresa, ci sono decine di migliaia di embrioni in questo stadio, chiamati «embrioni soprannumerari» e prodotti durante le tecniche di fecondazione assistita. «Non giriamo attorno alle parole: congelarli per sempre vuol dire ucciderli. E non è che ci siano altre vie: è ovvio che la strada dell'adozione, che qualcuno ha proposto, è impraticabile. Credo che sia lecito pensare di trattarli in maniera analoga a quanto accade per la donazione d'organi: c'è una legge severa, che richiede il consenso e pone dei vincoli precisi. Ma una volta che sia acclarato che una persona non è più in grado di sopravvivere senza una macchina che la tenga in vita, è legittimo consentire di utilizzare gli organi per salvare un'altra vita. Così pure gli embrioni: una volta che non servano più per fini riproduttivi, essendo destinati a morte sicura in un freezer, mi sembra più etico che i genitori possano avere la scelta di donarli alla ricerca».
Ma Smith ci tiene a essere cauto: «non siamo sicuri che questa ricerca porterà a risultati terapeutici: può essere che la strada delle staminali adulte, assai meno controversa, porti a dei risultati. Ma è altrettanto possibile che non si riuscirà mai a far crescere i tessuti nel modo desiderato. Quindi è insensato abbandonare un ramo promettente della ricerca per uno più incerto». Come invece ha suggerito (a maggioranza) il comitato bioetico italiano, dando per scontato (nel parere espresso sul tema l'11 aprile scorso) che la ricerca con le staminali adulte (con cellule prelevate dal cordone ombelicale o da feti spontaneamente abortiti o da altri tessuti adulti) sia non solo «promettente» ma anche «eticamente impeccabile» (la chiesa infatti si è già espressa positivamente sul tema). Anche se il comitato non ha offerto alternative all'inevitabile destino degli embrioni congelati.
Le ragioni per cui secondo Smith è più sensato proseguire sulla strada delle staminali embrionali provenienti dagli embrioni soprannumerari, senza trascurare anche gli altri tipi di ricerca, è che «sono disponibili in grandi quantità senza doverne creare ad hoc, hanno una elevata capacità di moltiplicarsi e di essere stabili, possono differenziare di più e conosciamo le molecole che servono per farle differenziare». Una ricerca senza vincoli, dunque? «No, credo che la libertà della ricerca debba essere limitata – risponde Smith – penso ad esempio alle ricerche sulle armi chimiche, ma non nel caso serva a migliorare le conoscenze e forse la salute».
Anche Marc Peschanski, ricercatore della facoltà di medicina di Creteil in Francia attacca chi vorrebbe impedire la ricerca. «I malati di Corea di Huntington, la terribile malattia neurologica degenerativa, ci chiedono aiuto». Peschanski è stato il responsabile di uno dei primi trial clinici di trapianto di staminali (ma stavolta adulte, provenienti da feti abortiti: direttamente trapiantate nei malati senza essere coltivate) per curare la malattia. E i risultati su alcuni pazienti, pur se limitati, sono incoraggianti. «Abbiamo usato solo tre-quattro feti per paziente – sottolinea il ricercatore francese -, ma ce ne vorrebbero venti. Questo crea enormi problemi e rende assolutamente necessarie le "banche dati" di cellule e la ricerca deve continuare».
Tutta l'attenzione però era concentrata su Umberto Bertazzoni, capodelegazione al Comitato di programma della Commissione europea e sui membri del comitato presenti all'incontro (Elena Cattaneo, ricercatrice su cellule staminali e Corea di Huntington e l'oncologa Maria Luisa Villa). Sul momento Bertazzoni, unico ad avere diritto di voto, non si era sbilanciato («devo consultarmi col governo»), ma alla fine il voto è stato negativo, assieme a quello della Germania. Il documento è stato comunque approvato dando la possibilità dunque di finanziare progetti che utilizzano le staminali già isolate. Ma la strada per aprire alla sperimentazione tout court è ancora lunga e l'Italia si è già schierata sul fronte del no.
<i>di LUCA TANCREDI BARONE</i>