Domani la Camera approverà la legge sulle cosiddette Dat. Una legge confusa e sbagliata in sé, e sbagliata perché viene fatta. Io sono tra quelli che pensano che Dsul "fine vita" non debba esserci una legge. Nessuna legge. La morte infatti è, come si dice, la parte più difficile e importante della vita e appartiene tutta intera alla persona. Ogni morte è singolare, lo è anche negli eventi drammatici che possono colpire una intera collettività. Anche in quel caso si celebra l’incontro di una persona con la sua propria morte. Chi ne è esterno, è inevitabile e giusto che rimanga tale. Per questo ritengo assurdo legiferare e giuridicizzare il fine vita come evento astratto e generale. Credo che basti dire ciò che l’ordinamento già afferma: No all’anticipazione e no al ritardo, No all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico.
Sono convinto che il letto del paziente terminale diventi, a prescindere dalle ragioni di fede che possono esserci o non esserci, il luogo sacro in cui arde l’ultima drammatica domanda "Perché Signore… fino a quando? ", al quale chi vi si accosta, nel dolore e nel mistero, avverte tutto il rischio, il peso e la violenza di una possibile invasività della tecnica e della legge. Sì, perché anche la legge, quando pretende di prevedere e imbrigliare tutte le circostanze che inevitabilmente le sfuggono, può diventare invasiva e ingiusta. Queste sono le ragioni per cui io, insieme ad altri colleghi, ritengo sarebbe saggio, siamo ancora in tempo, fermarsi e non legiferare. Vi è infatti una etica del limite anche per il legislatore. Scriveva molti anni fa il filosofo del diritto Jacques Ellul: "Un eccesso di diritto e rivendicazione giuridica sfocia in una situazione nella quale al termine, il diritto stesso diventa inesistente". Stiamo vivendo tempi infatti in cui, la norma positiva statale o metastatale, tende sempre più a definire ogni aspetto della vita sociale, occupando territori che, fino a poco tempo fa, erano governati dall’etica dei comportamenti e del buon senso, e ciò spesso avviene anche con l’oggettiva complicità di tanti credenti che rischiano in buona fede di scivolare verso una vera e propria idolatria della legge, della forza delle legge per garantire la virtù. E un esercizio difficile per il legislatore e il politico misurarsi con il limite, con ciò che non può fare e persino con ciò che non può impedire, ma, come esortava Pietro Scoppola, dovremmo amare la politica "Come disegno per il futuro. come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile".
Vi sono temi, osservava ancora A.C. Jemolo, che la legge può solo lambire,e la morte è senz’altro tra questi. So benissimo – ho ascoltato nel dibattito in aula di questi giorni tanti colleghi che pure mi dicevano di condividere la mia posizione contro l’ipotesi di una qualsiasi legge – che ora sarebbe necessario intervenire a causa di quella sentenza creativa della corte di cassazione sul caso Englaro.
Anch’io sono convinto che quella sia stata una sentenza creativa, che è andata cioè oltre il dettato dell’articolo 101 della costituzione, e pure mi permetto di osservare che, se questa sentenza ha potuto esserci in presenza delle previsioni che il nostro codice penale fa agli articoli 575 ( contro l’omicidio), 579 (contro l’omicidio del consenziente), 580 ( contro l’istigazione e l’aiuto al suicidio), 593 (contro l’omissione di soccorso), non sarà per una norma in più che si riuscirà ad evitare ciò che si giudica negativamente.
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