“Sarebbe stato utile coinvolgere stabilmente nella discussione tutte quelle persone e agenzie che, pur non essendo di solito comprese tra i portatori d’interesse della salute mentale, hanno un ruolo d’importanza cruciale nei processi sociali”: questa l’indicazione del segretario della sezione veneta della Società italiana di Psichiatria, dottor Antonio Lasalvia, partecipante ad uno dei tavoli della Conferenza regionale per la Salute mentale.
“Sarebbe stato un segnale di deciso cambiamento di rotta” prosegue, “l’aver invitato rappresentanti d’istituzioni pubbliche eprivate, il mondo della scuola, i media, le Forze dell’Ordine…”. A cui io aggiungerei le associazioni di promozione sociale, il volontariato, qualsiasi gruppo organizzato di interesse giovanile, oltre ai rappresentanti delle associazioni dei familiari e gli utenti, ma anche qualche battitore libero…
Cioè a dire: la questione della sofferenza mentale riguarda la società nel suo complesso e se vogliamo lavorarci dobbiamo avere l’idea di un impegno collettivo per il futuro che riguarda tutti e tutti devono sentirsi coinvolti. Se continuiamo a dire che interessarsi di salute mentale è un fatto culturale, significa in pratica questo, coinvolgere più persone possibili.
La Regione Veneto, dopo la DGR 371 dell’anno scorso che ha messo una pezza temporanea (scadenza dei finanziamenti a fine di quest’anno!) alla carenza di personale non medico nei Servizi di Salute mentale (che se anche fosse applicata al completo darebbe sempre numeri inferiori alla media nazionale!) ha organizzato, come previsto dalla delibera di giunta, una Conferenza regionale per la Salute mentale allo scopo di andare a definire proposte che daranno corpo al prossimo Progetto Obiettivo, mancante da oltre dieci anni.
Nel novembre ’22 c’è stata la prima giornata congressuale a Verona dove è stato dato il via ai lavori e istituiti i sei tavoli tematici che hanno portato alla stesura dei documenti conclusivi che sono stati presentati il 7 giugno ’23 a Padova. Che io sappia, solo il Veneto si è mosso così.
I documenti sono visibili sul sito della Regione Veneto e rappresentano, senza dubbio, un tentativo pregevole di correggere notevoli criticità nell’ambito della salute mentale pubblica. Questo lavoro di gruppo tra esperti, operatori e stakeholders (tutti, secondo gli organizzatori) è stato salutato con molto calore dai vari amministratori istituzionali.
Il Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute mentale racchiude indicazioni preziose, cioè di valore, ma anche, letteralmente, improntate ad un’apparenza artificiosa. Perché tutte quelle belle cose scritte colà hanno un prezzo, economico e di forma mentis.
Ho esperienza sufficiente per poter testimoniare che i Progetti Obiettivi precedenti a tutela della Salute Mentale non sono mai stati applicati in modo completo. Il motivo per cui non sono stati applicati è il divario triste tra obiettivi da sogno e realtà da fame, esito del processo di aziendalizzazione sanitaria pubblica che ha impoverito il settore, lentamente ma rovinosamente.
Ricordo che il precedente Progetto Obiettivo definiva il Centro di Salute mentale come “il fulcro organizzativo e l’asse portante dei progetti terapeutici”; ebbene, negli ultimi anni in cui vi ho lavorato i pazienti in carico presso il Centro, divenuto mero ambulatorio medico, venivano inviati al Pronto Soccorso se chiedevano aiuto.
Il mio pensiero quindi va a un collegamento pratico tra quello che sarà scritto nel Progetto Obiettivo e quello che si potrà finanziare per concretizzare i programmi.
Nei documenti ci sono progetti ambiziosi, costosi: progetto casi complessi in adolescenza, budget di salute, gruppo di esperti di tele-medicina, per citarne alcuni. Nei documenti, poi, ci sono richiami a un approccio alla persona con disabilità psichica, distanti rispetto all’approccio medico alla disabilità, in cui converge da tempo la routine psichiatrica.
Non c’è cosa peggiore che lavorare in un contesto di cura che ha obiettivi preziosi e strumenti insufficienti. Gli obiettivi alti, con le rivoluzioni precedenti, ci sono già. Ci sono già stati e li abbiamo persi, disciolti, dimenticati. Non solo la rivoluzione freudiana, non solo la rivoluzione basagliana, ma anche la rivoluzione farmacologica non ha avuto la tenuta che avrebbe dovuto avere per mancanza di raccolta dei dati prescrittivi, di azioni di farmacovigilanza, di studi di farmacogenetica e di ricerca su altre molecole psicoattive.
L’approccio recovery rappresenta un’altra rivoluzionaria visione che necessita di investimenti, economici e umani che chi lavora nelle strutture riabilitative conosce bene. La condivisione e la co-progettazione con utenti e familiari è un ulteriore fatica che bisognerebbe affrontare. E avanti di questo passo… Nell’ambito della salute mentale le vision ci sono e sono chiare.
Temo pertanto che un nuovo Progetto, sostenuto da antiche e nuove teorie, se non supportato da reali politiche attive e atti concreti d’investimento, possa rigettare gli operatori nella iatrogena conosciuta condizione di sogno irraggiungibile.
È fondamentale considerare il peso della condizione dei lavoratori della salute mentale e un progressivo lavoro di valorizzazione del personale che parta appunto dall’idea che il capitale umano impegnato rischia di fare più male che bene, se non adeguatamente supportato.
Un terzo dei pazienti ritiene di essere trattato in modo irragionevolmente pregiudiziale dagli stessi operatori della salute mentale, per esempio. Triste dato a cui dare risposta solamente attraverso azioni attive che mirano alla qualità delle risorse umane, ad attivare sostegni di gruppo e di costante supervisione, formazione dedicata che riporti a parlare di cura, soggettività, persona, di contesto psico-sociale e di risorse personali.
Si potrà fare?
Sempre dalla parte degli operatori, un danno misconosciuto che lascia ahimè il segno nel tempo è quella confusione di contesti che si determina necessariamente in un ambiente di cura dove mancano interventi necessari, come in una famiglia in cui venga a mancare un componente importante.
La mancanza per un anno intero dell’unico psicologo dell’equipe, la mancanza per mesi dell’unica assistente sociale, la mancanza di personale amministrativo, la mancanza della funzione di front office accogliente, la mancanza di precisi orientamenti di sostegno psicologico utili al paziente, la mancanza di una pronta risposta vicariante, la mancanza di pressione attivante riabilitativa in persone con capacità, la mancanza di terapisti della riabilitazione, eccetera, le varie mancanze attivano nell’operatore presente azioni difensive di sostituzione della deficienza.
Un operatore socio-sanitario che fa l’amministrativo, lo psicologo che fa il medico, l’infermiere che fa l’assistente sociale, l’operatore riabilitativo che fa da madre al paziente, eccetera, crea confusioni e disfunzioni relazionali personalizzate che possono radicarsi nell’operatore stesso e diventare una forma mentale che osteggia il lavoro di gruppo e la condivisione di un programma di cura. È un danno che rischia di riverberare.
Per non parlare del cosiddetto presentismo degli operatori, il dover esserci a tutti i costi col paziente anche se impossibilitati o ammalati, fenomeno di buona volontà individuale che testimonia quanto sia lasciato nelle mani e nella coscienza dell’ultimo “sensibile”, spesso in situazioni di rischio o di abbandono.
Do qualche dato per far capire che la situazione è effettivamente legata a dati di fatto. E che questi dati di fatto devono cambiare prima di ogni Progetto Obiettivo illusorio e prezioso, pena una nuova ulteriore inutile sofferenza negli operatori della salute mentale e il persistere di meccanismi negli operatori del tipo “si fa quello che si può”, cioè lavorare “a testa bassa” e dissociati rispetto ai sogni.
La spesa in Veneto dedicata alla salute mentale è il 2,27% del Fondo sanitario totale; siamo penultimi nella classifica delle regioni che spendono poco; meno di così solo la Calabria. Siamo lontani dal DGR del 2016 che indicava la cifra del 5% e dalla legge regionale del 2012. Le indicazioni c’erano. Sono mancati gli investimenti economici e la volontà politica. Il prossimo Progetto Obiettivo servirà per dire, ancora una volta, che le indicazioni c’erano?
Diego Silvestri è medico psichiatra, in pensione dal 2021. Ha lavorato presso strutture sanitarie pubbliche in Veneto dove ha ricoperto anche ruoli di responsabilità. È stato professore universitario nella facoltà di Infermieristica a Verona e docente per diversi anni nei corsi per operatore socio sanitario. Presidente della cellula Vicenza Padova. Fa parte del gruppo di lavoro che gestisce il Numero Bianco ed è consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni