Pensando a Rotelli che muore

salute mentale

Abbiamo assistito tutti al declino dell’assistenza psichiatrica in questi ultimi decenni, a quel lavorio improduttivo o scarsamente produttivo dei vari operatori della salute mentale, quel correre indaffarati a tamponare urgenze, a prescrivere farmaci, a ricoverare, a imporsi con protocolli, programmi assertivi, eccetera. A far finta, insomma, che quello che abbiamo chiamato Psichiatria fosse una disciplina medico chirurgica come l’Ortopedia dove si ripara, si aggiusta, si interviene, si riabilita l’osso e una funzione oppure come una Neurologia dove si diagnostica una malattia e la cura è la prescrizione di un farmaco che devi assumere tutta la vita, altrimenti, si dice, la malattia peggiora. 

Abbiamo assistito tutti ad una spesa farmacologica relativamente enorme rispetto al passato, prima dell’avvento del mitico Prozac della felicità, per intenderci, avvenuto attorno al giro di secolo, prima dei costosissimi antipsicotici di seconda generazione parallelamente ad un aumento della sofferenza mentale, non ad una diminuzione.

Abbiamo assistito alla delusione determinata da annunci del mercato prescrittivo di una paventata efficacia sulle depressioni, sui sintomi cosiddetti negativi delle psicosi, su guarigioni non avvenute.

La conoscenza di nuove teorie e l’attenzione particolare attorno ai disturbi dell’apprendimento e del neuro sviluppo hanno forse impedito una riduzione della sofferenza tra gli adolescenti, una loro inclusione scolastica, una miglior socialità? Anche in questo delicato settore abbiamo assistito ad un apparato medico che non ha saputo offrire argini efficaci ai nostri ragazzi che presentano grandi segnali di sofferenza e malessere, nonché una mortalità preoccupante da incidenti traumatici o gesti auto lesivi. 

Insomma, pensando a Franco Rotelli che muore e alla sua pratica psichiatrica, riportandoci indietro al tempo di Basaglia e compagni, quand’erano vivi e vivaci i loro pensieri, conoscendo i pochi riferimenti italiani che si sono ispirati al pensiero veramente bio psico sociale e ne hanno fatto una pratica, mi vien da dire che abbiamo assistito tutti, dai direttori di dipartimento ai pazienti più gravi, in questi ultimi decenni, al declinarsi negativo di una pratica medico psichiatrica che non ha assolto ai suoi compiti di cura, che si è allontanata sempre più dalla visione feconda che rifiutava il paziente mentale quale oggetto ortopedico o neurologico, come se avesse un organo da riparare o fosse affetto da una malattia del cervello o dei nervi.

È sempre più evidente come quella visione del malato, nata all’interno dei manicomi, non fosse una semplice visionarietà fuoriuscita dall’enfasi determinata dalla battaglia contro la costrizione e la disumanizzazione, ma una visione complessa della mente e dei suoi bisogni di cui sentiamo ora la necessità, in tempi di improduttivo riduzionismo biologista. 

È una visione ampia che mette al centro la persona, frase svuotata di senso in questo periodo storico di sanità malridotta e che invece, proprio la perdita di un esponente autorevole come Rotelli, me la fa usare perché questo è avvenuto nella rivoluzione basagliana: sono stati ascoltati i pazienti, messi al centro e attorno a loro costruito un sistema, sostenuto un mondo, rafforzate le loro risorse personali, ascoltati i loro bisogni, i loro desideri, spostandosi lo psichiatra dal centro. 

Di questo abbiamo bisogno tutti, credo: di rimettere al centro i soggetti, di lasciar perdere personalismi curativi medici unidirezionali, teorie dall’alto e la potenza unica del mercato degli psicofarmaci su cui altri hanno investito.

Penso che gli operatori della salute mentale non dovrebbero assistere passivi a quanto stiamo vivendo, ma darsi come agenti pro-attivi e stimolatori di un pensiero e di un fare centrato sulla persona che hanno in cura. 

Basta assistere! È ora di interessarsi alla persona.

È ora che la salute mentale, visti gli attuali dati negativi della gestione psicofarmacologico-assistenziale, dia sostegno alla persona prima che diventi un malato mentale, che aiuti con le sue teorizzazioni e conoscenze psicologiche e sociali lo sviluppo completo dell’individuo secondo le definizioni non riduzioniste di benessere, prima cioè che la persona prenda quella piega che nasconde, a volte in modo terribilmente irreversibile, le risorse personali.

Concorrono al benessere dell’individuo migliaia di fattori, lo sappiamo. Nel semplicismo e nell’immersione multi-tasking attuale si rischia di non tener conto di queste innumerevoli risorse personali, particolari e uniche a volte, di tener conto solo di fattori normotici o legati al mercato e resi evidenti da altri, accettati dai più.

Nelle strutture di riabilitazione psichiatrica gli operatori addetti devono pescare queste particolarità, a fatica nascoste nelle tasche e in abiti già piegati e strapazzati di individui sofferenti e diagnosticati. 

Una salute mentale organizzata dovrebbe muoversi prima: impreziosire le caratteristiche di una persona, le sue risorse personali, concentrarsi su qualità presenti in una ragazza, in un adolescente, sostenere il divenire evolutivo introspettivo di conoscenza personale di sé e rafforzarla.

Per far questo c’è bisogno di una cultura aperta al diverso, che valorizzi il particolare e la possibilità di ognuno di accarezzare le sue piccole grandi interiorità, compresi sogni, ambizioni, futuri. 

La storia personale di ognuno ha tappe evolutive psicologiche che gli esperti conoscono, che si ripetono dalla storia del mondo e presenti nei miti. La storia personale di ognuno si riempie, poi, di contenuti che danno il senso soggettivamente pieno di un’esistenza. Gli esperti, gli adulti, dovrebbero rivolgersi a chi cresce in questo mondo con la sapienza della conoscenza realistica delle tappe obbligatorie della vita e del rispetto del significato personalissimo e libero che ognuno dà alla propria esistenza.  In questa apparente contraddizione c’è tutto il lavoro della salute mentale rivolta ai giovani, lavoro impegnativo esperto e gentile, forte e debole nello stesso tempo.

Credo che gli studi sui determinanti sociali del disagio giovanile dovrebbero impensierirci quali adulti, genitori, guide civiche, professionisti. Dovrebbero favorire interventi che i basagliani avevano teorizzato quasi filosofeggiando, mezzo secolo fa, e che oggi la realtà ci impone concretamente se vogliamo evitare disagi e sofferenze. 

È ora pertanto di riprendere quello che di buono c’era in quella visione dell’uomo a cui Rotelli si ispirò e che rimane la sottolineatura potente del valore del soggettivo e del rispetto pieno dell’individuo attorno al quale costruire pratiche di senso. Questo seme non muore.