Non c’è pace senza giustezza (di analisi e proposte)

Episodio 4

Cos’è il principio di legalità? In estremissima sintesi è uno dei principi della democrazia moderna che si affermano dopo la Rivoluzione francese del 1789 e che prevede che gli organi dello Stato debbano agire secondo la Legge. 

Per tutto l’Ottocento la legge per eccellenza per uno Stato sovrano europeo (nella stragrande maggioranza dei casi monarchie più o meno parlamentari) è stata la Costituzione, a seguito della creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nell’immediato dopoguerra e l’adozione degli strumenti internazionali sui diritti umani, per “Legge” s’intende l’insieme di trattati, patti e convenzioni che impongono precisi obblighi agli Stati che non solo ne hanno riconosciuto l’universalità ratificandoli ma che hanno incluso nei propri ordinamenti una serie di norme stringenti per consentire il pieno godimento dei diritti codificati a livello globale. Assieme all’adozione di leggi in linea coi propri obblighi gli Stati si impegnano anche a promuovere politiche pubbliche conseguenti agli obblighi. 

Il principio di legalità prevede quindi che il potere delle istituzioni statali venga esercitato in modo discrezionale ma non arbitrario e, comunque, sempre nel rispetto delle libertà individuali – prima ancora del “no taxation without representation” il motivo della rivolta delle colonie britanniche del Nord America contro la Corona fu perché le sue truppe di Sua Maestà violavano l’habeas corpus

Malgrado si tratti di un’espressione latina, che letteralmente vuol dire “che tu abbia il corpo”, l’Habeas corpus viene utilizzata nei sistemi di Common Law per indicare l’ordine emesso dall’autorità giudiziaria di portare un prigioniero al proprio cospetto per verificarne le condizioni personali ed evitare una detenzione senza concreti elementi di accusa. L’habeas corpus richiede la sussistenza di precisi presupposti giuridici per poter limitare la libertà di una persona – il “bene” giuridico più prezioso che ci sia.

Perché è fondamentale tenere sempre a mente questi principi/obblighi? Perché purtroppo non esiste uno Stato, anche il più libero e democratico, dove non si assista a una qualche mancanza di rispetto di questi obblighi, seconda di poi se non si è fermi nel rispettare i diritti umani a casa propria come si potrà pretendere di esser presi sul serio quando si interverrà, magari anche solo a parole, per denunciarne la violazione altrove? Proprio perché i diritti umani sono universali occorre che universalmente si faccia tutto quanto necessario perché questi vengano goduti da chiunque dovunque.

Dove saremmo oggi se le relazioni politiche ed economiche tra gli stati si fossero fondate sul principio di legalità e cioè avessero sempre previsto la condizionalità per cui i ricchi investono o donano ai meno ricchi pretendendo che il tutto avvenga nel rispetto degli standard internazionali relativi ai diritti civili e politici, a quelli sociali o lavorali oppure ai vincoli ambientali che prevediamo, almeno teoricamente, a casa nostra?

In che mondo vivremmo se, per esempio, 30 anni fa, cioè quasi 20 anni dopo l’entrata in vigore dei Patti internazionali, invece che soffermarci su letture che ritenevano che la storia fosse finita dopo la caduta del Muro di Berlino, avessimo aiutato chi usciva da 70 anni di regimi totalitari a riformare le proprie Costituzioni e sistemi legali non “esportando la democrazia” ma ricordandoci quello che, anche col consenso dell’URSS, era stato adottato all’ONU nel bel mezzo della Guerra Fredda?

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando la ricostruzione post-bellica stava raggiungendo il picco di investimenti e innovazione consentendo l’arricchimento tanto per le democrazie che avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale quanto per le sconfitte Germania e Giappone, la comunità internazionale cercava di bilanciare lo scontro tra blocchi contrapposti con la codificazione di diritti civili, politici, economici, sociali e culturali in due Patti universalizzavandoli. 

Negli anni Cinquanta e Sessanti, gli Stati Uniti si assunsero la responsabilità di investire a tutto tondo per far sì che gli arci-nemici tedeschi e giapponesi potessero unirsi al cosiddetto mondo libero e democratico, furono processati i responsabili dei crimini commessi dagli sconfitti ma si aiutarono i loro popoli e istituzioni ad avviare un processo riformatore verso la democrazia liberale. 

Se nel 1990 si fosse adottato un atteggiamento simile, agganciando il processo di indipendenza delle ex-Repubbliche sovietiche alla scrittura di costituzioni fondate sul rispetto dei diritti universali, molti dei massacri in Europa, e sicuramente anche altrove, per guerre di secessione o “identitarie” molto probabilmente si sarebbero potuti evitare.

Nei preamboli dei Patti internazionali è scritto chiaramente che “in conformità con i principi proclamati nella Carta delle Nazioni Unite” si riconosceva “la dignità intrinseca e i diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” e “in conformità con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” si riaffermava “l’ideale di esseri umani liberi che possono godere della libertà civile e politica e della libertà dalla paura e dal bisogno raggiungibile solo se si creano le condizioni affinché ciascuno possa godere dei propri diritti civili e politici, nonché come dei diritti economici, sociali e culturali”. E invece…

E invece, malgrado il riconoscimento dell’universalità di questi principi e diritti, oltre che il proliferare di organizzazioni (anche non governative) che se ne interessavano, piuttosto che cogliere l’occasione della caduta del nemico “politico” per far crescere insieme a chi era stato oppresso un “mondo migliore”, si è deciso di non interferire con la “autodeterminazione dei popoli”. 

Ancora oggi, a così tanti anni di distanza da quella occasione perduta – o precisa scelta politica di non interferenza negli affari interni di decine di stati sovrani – si persiste con questo atteggiamento. La “Ragion di Stato” continua ad avere il sopravvento sullo “Stato di Diritto”, il (presunto) interesse nazionale viene ancora ritenuto il principio guida delle politiche statali – dico presunto perché l’ideologia continua a giocare un nefasto ruolo di guida in certe dinamiche – anche se questi stati fanno parte di un’unione politica come l’Unione europea. Poi, e questi giorni di guerra ce lo confermano, si scopre che l’interesse nazionale è vittima di scelte che piuttosto che essere “sbagliate” (“giusto”, “sbagliato”, “buono”, “cattivo”, “bello” o “brutto” in politica non significano nulla) sono state adottate per nostalgie ideologiche e, cosa molto più grave, in violazione degli obblighi internazionali.

La guerra di aggressione di Putin contro l’Ucraina è per l’appunto, un caso di scuola che viene da lontano. Nel 1991 non si volle cogliere l’occasione del fallito golpe russo dell’agosto di quell’anno per accompagnare Yeltsin in un percorso di affermazione dei diritti umani attraverso l’investimento in istituzioni liberal-democratiche che rispettassero gli obblighi internazionali della neonata Federazione russa. Malgrado ce ne fossero tutti gli elementi di contesto nazionale e congiuntura politica internazionale, non si è intervenne (neanche pubblicamente) per denunciare le politiche repressive nei confronti dei moti centrifughi in tutto il Caucaso settentrionale, né si prestò attenzione politica al modo con cui le neonate repubbliche del Caucaso meridionale si stavano trasformando in mini-autarchie illiberali – per non parlare del totale disinteresse verso le repubbliche dell’Asia centrale preziose per i rifornimenti energetici. 

Il “nostro” interesse nazionale è stato sempre anteposto al rispetto dei diritti umani di milioni di persone che non li avevano mai goduti, sono stati fatti grandi ragionamenti geopolitici e geostrategici (spesso di non allineamento anche se formalmente saldati all’Occidente) per insegnare ad altri come organizzare i loro nuovi stati. Ancora oggi si raccolgono i frutti di certi investimenti.

Anche se grazie ai protocolli aggiuntivi ai Patti, ahinoi opzionali, è possibile segnalare a dei comitati delle Nazioni unite le violazioni dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, non esiste una vera e propria giurisdizione attivabile in caso di leggi e politiche nazionali che non rispettino gli obblighi internazionali. Allo stesso tempo anche la “corte dell’opinione pubblica” non è quasi mai stata interessata da queste vicende, molto raramente infatti questi argomenti entrano a far parte del dibattito pubblico, mentre la questione è diversa per gli scontri tra (presunte) fazioni contrapposte che trasformano la difesa delle parti in causa in un confronto tra “bene” e “male” in perfetta linea con le obbedienze alle ideologie che hanno portato morte, disperazione e distruzioni per tutto il XX Secolo.

L’aggressione contro l’Ucraina è la summa di tutto quello che dalla fine dell’Unione Sovietica non è stato fatto, ma anche il riassunto di tutto quello che non dovrebbe esser fatto per andare alle radici della “crisi”. Se è necessario denunciare l’inesistenza e l’insussistenza del casus belli, se è necessario prendere le parti degli aggrediti contro l’aggressore fino ad arrivare a sostenere la resistenza armata di chi è accerchiato e colpito senza alcuna distinzione di obiettivi militari o civili, se sarebbe stato necessario interferire con le operazioni militari utilizzando le armi tecnologiche e non cruente a disposizione, un vero cambiamento radicale necessario sarebbe stato essere conseguenti coi propri obblighi di rispetto del principio di legalità.

Putin ha intrapreso un cammino di aggressione e invasione militare con un obiettivo geo-strategico preciso: portare a termine la conquista del Dombass e chiudere l’accesso dell’Ucraina al Mar Nero andando a connettere la Crimea annessa nel 2014 alla costa russa, ma, anche se riuscisse nel suo intento, non ha speranza di vincere definitivamente nel medio lungo periodo – nella migliore delle ipotesi (per lui) le regioni sud orientali dell’Ucraina diventerebbero un altro conflitto congelato con saltuari sparamenti e incursioni con successive conquiste o riconquiste.

È contro queste scelte politiche di Putin che l’unica arma che ha una qualche possibilità di vittoria è quella della politica. Una politica che – qui e ora – non può essere neutralità, equidistanza, oppure invocazione della pace o di tentativi di incursioni nonviolente (evocazioni di sacrosanti principi generali che oggi, proprio perché totalmente slegate dal contesto della guerra di aggressione, suonano talmente astratte da risultare assurde) né però una politica che si manifesti solo col mero anche se necessario sostegno militare, occorre la Politica con la “p” maiuscola affinché quello che si chiamava Occidente finalmente viva per ciò che l’ha reso tale: lo Stato di Diritto, la democrazia, la libertà e la giustizia.

Nel breve periodo questo ritorno alle origini può esser conquistato guardando al futuro, oltre a sanzionare gli stati europei che non rispettano i diritti umani e la separazione dei poteri, occorre che le promesse fatte dalla Presidente von der Leyen di inclusione dell’Ucraina nell’Unione europea siano mantenute anche nei loro passaggi tecnici – e quanto prima ampliate agli altri Stati candidati molti dei quali oggi a rischio destabilizzazione; occorre che, nel momento in cui Finlandia e Svezia entrano nella NATO, si riveda radicalmente il concetto di difesa comune europea – europeo è un aggettivo di geografia “politica” non “naturale” – avanzando proposte di revisione radicale anche del concetto di Alleanza perché senza una chiara definizione della necessità di un esercito europeo resterà la sovrapposizione di con la partecipazione nazionale a quello della NATO moltiplicando burocrazie senza investire in un futuro in cui l’impegno della forza non debba, progressivamente, essere più necessario.

Troppo spesso ci siamo sentiti dire che le “crisi” possono essere di crescita salvo poi accorgersi che non si impara dalle esperienze negative. Crisi finanziaria, crisi sanitaria e, oggi, crisi bellica sono state tutte “sprecate” senza che ci si sia dotati delle necessarie leggi o politiche (nazionali o internazionali) per evitare di doverle subire in futuro. Nel caso della guerra tutte queste crisi avvengono insieme e solo un cambio di atteggiamento generale e strutturato potrà aiutarci a uscirne in “poco tempo” e, soprattutto, a non tornarci con questa sensazione di impotenza o ineluttabilità generalizzata…