L’epidemia di Coronavirus ha messo ancor più in evidenza una delle maggiori pecche del sistema sanitario italiano: quello dei cosiddetti “medici di famiglia” (in breve, MF).
L’Italia è uno dei paesi europei che ha il minor numero di M F : 54 mila, cioè 89 ogni 100 mila abitanti (in Germania sono 170 per lo stesso numero di pazienti). Per diventare M F si deve seguire, dopo la laurea e l’esame di Stato, un corso di specializzazione di tre anni in “medicina generale”. Il medico di famiglia può avere un massimo di 1.500 pazienti.
È tenuto a lavorare cinque giorni la settimana, dal lunedì al venerdì: 10 ore settimanali da 500 a 1.000 pazienti; 15 ore da 1.000 a 1.500 pazienti. Può scegliere gli orari di ricevimento a sua discrezione. Con 1.500 pazienti, guadagna sui 4.600 euro lordi mensili (che per circa tre ore di lavoro al giorno non sono niente male). Sulla carta, è anche tenuto ad effettuare, in casi gravi, visite domiciliari.
Ma i pazienti avanzano questa richiesta solo in casi davvero eccezionali: a me è successo una sola volta nella vita, e forse anche per questo il medico è venuto subito e ha ordinato il mio ricovero in ospedale.
Aggiungo, in proposito, che il mio MF – ginecologo di professione – è persona capace e disponibile. Per la mia limitata esperienza personale (ho avuto due soli medici di famiglia), il M F si limita a qualche visita “semplice” (influenza, dolori vari), a seguito della quale suggerisce molto spesso una visita specialistica e prescrive i medicinali necessari per la malattia riscontrata. Le prescrizioni di medicinali sono una delle ragioni principali per cui ci si rivolge al M F, il più delle volte richiedendogli per telefono di lasciare a studio la ricetta di cui si ha bisogno.
Il MF pratica le iniezioni necessarie per il vaccino antinfluenzale (con un piccolo compenso a parte, da cui sono esclusi gli over 65 ed alcune altre categorie di persone). Normalmente, ha una stanza per il proprio studio e una piccola ed affollata sala di aspetto e non ha necessità di personale infermieristico.
Poiché da molti anni trascorro un paio di settimane in un paesino austriaco nel salisburghese – Dorfgastein, circa mille abitanti – posso testimoniare su come é organizzato il servizio dei M F. Alla periferia del paese c’è un piccolo edificio, con sala di aspetto con comode poltroncine che affaccia – attraverso ampie vetrate – sulle aiuole fiorite che circondano la casetta.
All’ingresso, una segretaria prende nota dei motivi della visita, controlla che i documenti di identità siano in regola, compila una “scheda paziente” peri nuovi “clienti” ed informa il MF dell’arrivo di un nuovo paziente e dei problemi da lui esposti. Al termine della visita, è possibile comprare dalla stessa segretaria la maggior parte delle medicine più comuni (aspirine, antidolorifici e altro), contenute in una piccola farmacia.
Il MF non si limita alle visite ma effettua diversi interventi di minore importanza: iniezioni, piccole ingessature, “punti” per tagli di non grave entità, radiografie, esami del sangue, asportazione del cerume dalle orecchie ed altro. In questo modo, solo i pazienti con problemi gravi sono costretti a ricorrere ai pronto soccorso degli ospedali, che infatti sono molto meno affollati dei nostri. Ed è molto meno frequente la necessità di rivolgersi a medici specialisti, con risparmio di tempo e di denaro.
Come in Italia, il MF riceve nei giorni feriali, alternando la mattina al pomeriggio, per un totale di circa 12 – 14 ore a settimana. Racconto queste due diverse realtà non solo perché auspico che prima o poi una delle tante “riformette” della Sanità italiana renda i nostri M F più simili a quelli austriaci, ma anche con riferimento alla attuale tragedia (credo che a questo punto questa parola non sia eccessiva) del Coronavirus e in particolare alle scene pietose che ogni sera ci forniscono i telegiornali, con file interminabili di automobilisti che anche per 24 ore attendono il loro turno per effettuare il sospirato tampone. Penso che se i MF fossero organizzati in Italia come in Austria potrebbero effettuare i tamponi sui loro pazienti, eliminando (o riducendo di molto) almeno questo aspetto della pandemia che ci circonda come un incubo.
Carlo Troilo è un giornalista che si è sempre occupato di comunicazione sia aziendale (capo ufficio stampa dell’IRI e direttore delle relazioni Esterne della RAI, dove ha coniato lo slogan “RAI, di tutto di più”) sia politica (capo ufficio stampa di due ministri). E’ impegnato nel campo dei diritti civili con l’Associazione Luca Coscioni – dove segue soprattutto il tema del fine vita – e sui problemi di Roma con “Roma Nuovo Secolo”).