Decidere di morire è un nostro diritto

foto Gilberto Corbellini

Articolo di Gilberto Corbellini per Il Sole 24 Ore

La filosofia è usata spesso per traghettare il pensiero di chi è meno accorto in qualche porto delle nebbie, dove non si distingue più niente e si ascolta la pancia illudendosi che si tratti della testa. Il filosofo Fornero usa invece idee chiare e distinte per inquadrare i termini giuridici del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia volontaria.

Il fine vita è un tema di stringente attualità. La discussione in Italia si svolge quasi esclusivamente sul piano etico e con l’etica si fa bella figura, ma non si va da nessuna parte. È necessario un salto di qualità nella discussione sul diritto di disporre della propria vita nella sfera giuridica, usando la filosofia per aiutare i magistrati a uscire da schemi di ragionamento troppo intuitivi e poco analitici. In materia di fine vita la giurisprudenza sta producendo decisioni e sollevando domande interessanti, benché disomogenee, e il libro di Fomero prova a fare chiarezza sulla natura delle incertezze sul piano giusfilosofico.

La realtà del fine vita interroga quotidianamente medici e giudici. Come spiega Fornero, nei paesi dove il suicidio assistito o l’eutanasia sono legali, essere aiutati a morire non è un diritto sullo stesso piano dell’interruzione di gravidanza o di essere curati per un’infezione potenzialmente letale: si tratta di prestazioni richieste da persone che per il solo fatto di essere invita patiscono sofferenze fisiche e morali, e che sono regolamentate sulla base di criteri che servono a stabilire in modo accettabile quando la scelta di non continuare a vivere è giustificata e autentica o autonoma. È difficile capire su basi razionali l’accettazione praticamente unanime del diritto, legalmente riconosciuto anche da parte dai portatori di una filosofia della vita comunitaria o religiosa, di rifiutare, di morire attraverso il rifiuto di un trattamento (indipendentemente se è futile o terapeutico), mentre vigono riprovazioni e pesanti sanzioni per qualunque atto che aiuti a metter fine alla vita di una persona, la quale ne fa esplicita e razionale richiesta, nel momento in cui giudica quella vita non degna di essere vissuta, chiedendo l’assistenza (suicidio medicalmente assistito) o l’intervento diretto del medico (eutanasia volontaria).

La credenza che la vita abbia più valore e sia più tutelata se rimane legalmente sottratta alla disponibilità delle persone che la vivono è frutto di un sentimento non benevolo e non altruista, che solo a posteriore viene razionalizzato con argomenti poco chiari e indistinti. Nei tempi in cui determinati pregiudizi contro le libertà personali erano funzionali alla stabilità sociale, quindi socialmente prevalenti, e le persone succhiavano col latte materno il dogma che la vita sarebbe un bene indisponibile, in quanto dono divino a disposizione delle esigenze di rafforzamento della comunità, il diritto prevedeva pensanti sanzioni per chi trasgrediva. Inclusi coloro i quali commettevano il “reato” di suicidio.

I tempi sono cambiati, ma la psicologia umana rimane di fondo la stessa, per cui anche il diritto si muove e si adegua in modi lenti e incerti. Il che può avere senso per alcuni ambiti sociali o economici, ma non laddove cresce il numero di persone che per morire deve attraversare la valle vasta e dolorosa della morte cronico-degenerativa. In questo caso non si capisce quale genere di “diritto” applicato si possa far prevalere sul diritto alla libertà (autodeterminazione) di decidere di non soffrire, e non essere discriminati senza giusta ragione.

Sono maggioranza nel mondo occidentale coloro che, lavorando per decenni e pagando le tasse grazie alle quali i magistrati ricevono gli stipendi, si aspettano di poter disporre in fine vita, rispettando chi non ne vuole disporre o quei medici che obietterebbero, della libertà di decidere se proseguire o meno, e nel caso di essere aiutati a non patire sofferenze intollerabili e lesive della loro dignità personale.

Il diritto dovrebbe servire, in un quadro liberale, a prevenire abusi e a rendere intelligibili e sensate le segnaletiche alle quali ci affidiamo nel cammino incerto delle negoziazioni sociali. Fornero smonta quasi cavillosamente ogni genere di argomento che pretenda di difendere con razionalità la tesi della indisponibilità della vita. Poco si può fare con argomenti razionali quando prevale il pensiero motivato, dalla religione o da un’etica che antepone il dovere alla libertà.

Largo spazio viene dato nel libro alle battaglie di Marco Cappato e dell’Associazione Luca Coscioni, che stanno sfidando il diritto vigente perché si interroghi sulla lettera autentica della carta costituzionale in materia di libertà personale e autodeterminazione. Ovvero su quanto effettivamente il prevalere dell’indisponibilità della vita nei codici italiani non costituisca la sopravvivenza di principi e valori arcaici, che intercettavano sentimenti tipicamente totalitari o illiberali.