La coscienza del diritto (di aborto)

L’obbligo dello Stato di garantire il diritto a interrompere una gravidanza rende legittima e proporzionata la scelta di non assumere ostetriche e ostetrici obiettori di coscienza rispetto all’obbligo di tutelare il diritto alla salute. È quanto emerge dalla decisione con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha dichiarato irricevibile il ricorso con cui una donna svedese aveva lamentato un trattamento discriminatorio da parte di tre diversi ospedali e la violazione della propria libertà di coscienza e religione (Grimmark c. Svezia).

I fatti raccontano che nel 2012 Ellinor Grimmark, infermiera, sospende il proprio lavoro per dedicare diciotto mesi a un percorso di formazione in ostetricia. A completamento del percorso, e in ragione di questo, invia la propria candidatura come ostetrica a tre diverse cliniche svedesi dichiarando tuttavia di essere obiettrice di coscienza e di non essere disposta a praticare l’aborto per motivi religiosi. La sua scelta si traduce in tre rifiuti: in nessuno dei casi ottiene il lavoro. 

Si rivolge quindi alla giustizia e segue un percorso che ha il plurale nelle sedi ma una singola risposta. A cominciare dal Mediatore per le questioni di discriminazione e continuando con la Corte distrettuale di Jönköping, col Tribunale del lavoro e la Corte europea dei diritti dell’uomo, i giudici ricordano che in Svezia la professione di ostetrica richiede anche l’esecuzione di aborti farmacologici nei casi previsti dalla legge. 

La legge svedese sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) – “the Abortion Act”, 1975 – consente il ricorso all’aborto entro la diciottesima settimana di gestazione. Di conseguenza, i reparti di ginecologia e ostetricia di tutti gli ospedali hanno l’obbligo di garantire – ed effettivamente garantiscono – l’esercizio di tale diritto. Nonostante l’ampiezza dei termini, circa l’86% dei 41,385 aborti effettuati in Svezia nel 2018 è avvenuto entro l’ottava settimana di gravidanza, l’8% tra la nona e l’undicesima e solo il 5% oltre la dodicesima (Socialstylrelsen. Abortstatistik 2018).

L’obiezione di coscienza non è contemplata dal legislatore. Quel che è previsto, invece, è che il datore di lavoro possa pretendere dai dipendenti l’espletamento di tutte le funzioni richieste da un certo ruolo professionale e che, a fronte di un preventivo rifiuto a eseguire uno o più compiti, possa a sua volta rifiutarsi di assumere la persona in questione.

Il caso Grimmark, secondo i giudici, non è configurabile come una controversia sulla libertà di pensiero, di coscienza e religione (art. 9 CEDU), né costituisce un caso di discriminazione (art. 14 CEDU). Un’altra qualunque ragione che avesse comportato un limite all’attività professionale, avrebbe condotto al medesimo risultato.

L’obiezione di coscienza risuona invece spesso nella gran cassa italiana in materia di aborto. La legge 194 del 1978, nel riconoscere il diritto di IVG entro i primi 90 giorni, riconosce anche il diritto del personale sanitario a rifiutarsi di eseguire la procedura se ritenuta in contrasto con la propria coscienza e/o religione. L’ingerenza della morale cattolica, parzialmente celata dall’ obbligo di “assicurare l’effettuazione degli interventi di IVG”, si riflette nei dati ormai antichi dell’ultima relazione al parlamento (2017) sullo stato di attuazione della legge: secondo quanto riportato, solo il 64,5% delle strutture con reparto di ginecologia e ostetricia effettua le IVG in Italia, rivelando un paese che definisce la vita senza interpellare la scienza e in cui l’organizzazione territoriale non garantisce l’effettivo accesso alle procedure di aborto in tutte le zone dello stivale.

La decisione di irricevibilità della CEDU conferma che il diritto a interrompere una gravidanza comporta in via prioritaria l’obbligo dello Stato di proteggere la salute e il diritto alla salute delle donne che ricorrono all’aborto. Alla luce di tale obbligo, la legge svedese considera quindi legittima l’interferenza con la libertà di religione da parte di un datore di lavoro che, allo scopo di tutelare la salute delle donne, si rifiuti di assumere personale sanitario non disposto a svolgere tutti i compiti richiesti dalla professione. Se è vero che tali considerazioni avvengono in mancanza del diritto all’obiezione di coscienza nella normativa svedese, è anche vero che una corretta applicazione della legge 194 richiederebbe parità nel numero tra obiettori e non obiettori in tutte le strutture sanitarie pubbliche dotate di un reparto di ginecologia e ostetricia. Le conseguenze della sproporzione tra le categorie sono già state evidenziate dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa che nel 2016, su ricorso della Cgil cui aveva contribuito anche l’Associazione Luca Coscioni, ha riconosciuto uno svantaggio lavorativo dei medici non obiettori dovuto al numero crescente di personale non disposto a effettuare aborti. Anche il Comitato per i diritti umani dell’ONU si è espresso nel 2017 sottolineando come gli ostacoli all’interruzione legale della gravidanza comportino di fatto un aumento degli aborti clandestini. Per applicare la legge 194/1978 alla lettera, i bandi concorsuali per il personale sanitario dei reparti di ginecologia e ostetricia dovrebbero garantire parità di accesso, e parità di assunti, tra obiettori di coscienza e non obiettori. In questo modo, la salute di ogni donna intenzionata o obbligata a interrompere una gravidanza riceverebbe adeguata tutela sul territorio nazionale, nel rispetto della legge 194 e del diritto dei lavoratori impegnati nelle strutture sanitarie pubbliche.