Tempi maturi per il suicidio assistito

Articolo di Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, per L’Espresso.

È possibile per un malato accedere al suicidio assistito in Italia? Con la sentenza 242/2019 la Corte Costituzionale ha risposto che in alcuni casi è possibile.

Non è infatti più punibile chi aiuta un malato che abbia autonomamente e liberamente deciso di porre fine alla propria vita e che sia: “1) una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, 2) affetta da patologia irreversibile, 3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ma 4) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli“.

Queste condizioni devono essere state “verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. La Consulta, con una sentenza di incostituzionalità immediatamente applicativa con effetto di legge, ha riscritto il perimetro dell’articolo 580 del Codice penale che prevede una pena da 5 a 12 anni per istigazione e aiuto al suicidio. Il reato rimane per l’istigazione e per quei casi di aiuto materiale che non rientrano nelle condizioni della sentenza.

La decisione risponde all’incidente di costituzionalità sollevato dalla Corte di Assise di Milano, nel giudizio che vedeva Marco Cappato imputato per l’aiuto alla morte volontaria di Fabiano Antoniani.

A settembre 2018 la Consulta aveva utilizzato la formula della dichiarazione di incostituzionalità “accertata ma non dichiarata” rinviando l’udienza di 11 mesi fornendo al Parlamento il tempo di intervenire. Nell’ordinanza del 2018, si legge che il divieto assoluto dell’articolo 580 cp: “finisce […] per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”.

La chiusura di questa vicenda ha una portata storica e per la prima volta la Corte Costituzionale interviene in materia di scelte alla fine della vita. Adesso tocca al Parlamento intervenire con una legge che però non potrà restringere quanto fissato dalla Consulta. Nell’attesa che le Camere discutano, un prossimo appuntamento è per il 5 febbraio prossimo a Massa per l’ultima udienza del processo a Marco Cappato e Mina Welby che hanno aiutano Davide Trentini, un malato che – con patologia irreversibile, fonte di sofferenze insopportabili e nel pieno della capacità di autodeterminarsi – non era attaccato a una macchina.

Il caso di Trentini potrebbe non essere ricompreso nella definizione della Consulta. Se il legislatore non sarà intervenuto saranno di nuovo i giudici a decidere. Dalla vicenda di Piergiorgio Welby (2006) in poi, solo grazie alle persone che hanno reso pubbliche le proprie drammatiche storie, si sono suscitate riflessioni e riforme sistematicamente scansate dalla politica. In tutti i sondaggi gli italiani chiedono di voler essere liberi di scegliere.

Lo scorso ottobre i giudici hanno ampliato le possibilità di esercizio di questa libertà: adesso è compito della politica codificare l’autodeterminazione individuale fino alla fine della vita. Dal 2013 alla Camera giace una proposta di legge d’iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia, promossa dall’associazione Luca Coscioni e sottoscritta da oltre 67 mila persone per regolamentare la fine della vita, i tempi sono maturi per approvarla.