Prostituzione, la Consulta e il moralismo di Stato

Processo Cappato Corte Costituzionale

Dispiace: ma con la sentenza 141/2019 la Corte Costituzionale mostra sintomi di quel perbenismo istituzionale, che in molte altre decisioni aveva invece cancellato.

Il fatto è semplice. La Corte d’Appello di Bari dubita che sia costituzionalmente lecita la sanzione penale per chi operi “reclutamento e favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata”.

La Corte risponde di sì, spiegando che – in questa materia – non è in gioco l’esercizio di un diritto inviolabile, posto che “i diritti di libertà sono riconosciuti…dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona e tale valore fa riferimento non all’individuo isolato, ma a una persona titolare di diritti e doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali”.

Dunque, apparirebbe corretto non punire il soggetto che si prostituisce, ma colpire tutti coloro reclutano, collaborano, favoriscono. Questo perché “si ritiene fondamentalmente… che la scelta di esercitare la prostituzione trovi normalmente la sua matrice in una condizione di vulnerabilità, legata a cause individuali e sociali (quali la distruzione della vita di famiglia, l’insufficienza dell’educazione, il bisogno)”.

Per non lasciare adito a dubbi:

“……E’, in effetti, inconfutabile che, anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali…… occorre considerare che, in questa materia, la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione penale….. riguardo, poi, alla concorrente finalità di tutela della dignità umana, è incontestabile che, nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma, Cost., il concetto di “dignità” vada inteso in senso oggettivo…… il fatto stesso che il legislatore – in accordo con i postulati del modello abolizionista – identifichi nella persona che si prostituisce il “soggetto debole” del rapporto spiega, altresì, la scelta di non intervenire penalmente nei confronti di quest’ultima…”.

Così argomentando, la conclusione si costruisce da sola:

…..l’individuazione dei fatti punibili, così come la determinazione della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore….. per lungo tempo, essa ha infatti individuato l’oggetto della tutela – conformemente all’originaria impostazione del codice penale – nel buon costume e nella moralità pubblica (dunque, in un interesse “metaindividuale” e indisponibile) ……la legge in questione mirerebbe, in realtà, principalmente a salvaguardare la dignità e la libertà di determinazione della persona che si prostituisce……la tutela si focalizzerebbe … soltanto sulla dignità della persona esplicata attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, che non potrebbe costituire materia di contrattazioni. 

Dunque, ci dice la Corte, si fa, si fa liberamente, ma negli angoli, un poco di nascosto…. Secondo un antico ma attuale adagio, si fa ma non si dice.

Sgomberiamo il campo dall’ovvio: la tratta delle donne esiste, è diffusa, è reato grave, non si discute; ma qui parliamo d’altro.

La lunga, colta, diffusa argomentazione della Consulta cerca di evitare il fatto concreto, che invece c’è, e resta lì. Saranno poche, piccole minoranze (qui la statistica non rileva), ma alcune donne che liberamente e coscientemente hanno scelto e scelgono di esercitare la prostituzione ci sono.

La Corte d’Appello di Bari le ha incontrate, nel suo processo, e proprio perché le ha incontrate non ha potuto che sollevare la questione: colui che aiuta chi opera liberamente o lecitamente, come può commettere un reato? Quale è il bene giuridico protetto?

Ed allora, per salvare la costituzionalità del reato, si deve negare il fatto, che pure il Giudice del processo penale aveva accertato.

La prostituzione è immorale? Può darsi. Il cliente è un essere miserabile? Può darsi.

Queste valutazioni sono però frutto di moralità soggettive rispettabili, ma che uno Stato laico non può fare proprie, perché non è lecito argomentare secondo il criterio per cui l’esercizio della libertà per essere tale deve essere conforme all’etica, proprio per il tasso di soggettivismo tipico di questo approccio.

La libertà può essere esercitata anche in modo “disonesto”. Se non c’è violenza, se non c’è danno ingiusto, la “disonestà” è un fatto privato, moralmente importante per l’individuo, ma che non ha titolo per essere fonte di legge e di imposizione.

“La legge deve arrestarsi davanti alla porta della camera da letto”, ha scritto un grande giurista statunitense. Qui l’argomento è un poco diverso, ma la lezione è sempre valida.