Non lasciamo alla Cina il controllo mondiale sulle droghe

Nei giorni in cui sta cercando di imporre una legge sulle estradizioni a Hong Kong, la Repubblica popolare cinese ha deciso che vuole il posto di direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine (Unodc). Il mandato decennale dell’attuale capo, il russo Yuri Fedotov, scade fra qualche mese e la gara alla successione è iniziata. Dopo anni di guida proibizionista i tempi sarebbero maturi per un radicale cambio di direzione delle attività delle Nazioni unite in materia del cosiddetto “controllo mondiale delle droghe”, vedere quindi arrivare un cinese conferma come nelle stanze dell’Onu si sia poco interessati a prendere atto di leggi e politiche che cambiano.

Pechino ha avviato la sua campagna elettorale per Andy Tsang Wai-hung iniziando da una parte del mondo che potrebbe avanzare candidature molto più in contatto con le evoluzioni critiche del proibizionismo: l’America Latina. Tsang è stato per anni il capo della polizia di Hong Kong e in particolare il responsabile della repressione delle proteste nonviolente di “Occupy” del 2014 – alle cui fasi finali assistei in loco -, durante le quali la polizia in tenuta antisommossa lanciò lacrimogeni sui giovani manifestanti pacifici. Da allora a Hong Kong Tsang è conosciuto con l’appellativo di “avvoltoio”.

Dopo aver fatto sparire per mesi il capo dell’Interpol Meng Hongwei, la Cina cerca di rifarsi un minimo di reputazione internazionale candidandosi a posti di rilievo della comunità internazionale, magari non di primissimo piano come in effetti quello all’Unodc. Da quando ha preso il posto di Taiwan alle Nazioni unite, l’unico altro alto funzionario cinese dell’Onu è stato Margaret Chan, l’ex Direttore Generale dell’Oms, anch’ella di Hong Kong.

La storia dell’ufficio delle Nazioni unite per la droga non è particolarmente entusiasmante e, purtroppo, in buona parte anche per responsabilità italiane. Fondata nel 1997 come ufficio per il “controllo della droga e la prevenzione del crimine”, nel 2002 ha fuso altri programmi del sistema onusiano accentrando tutto sotto la direzione di un solo capo a Vienna. Il suo compito sarebbe assistere l’Onu nel gestire una “risposta coordinata e globale ai problemi di traffico illegale di droghe, abuso di stupefacenti, prevenzione della criminalità e giustizia criminale, terrorismo internazionale e corruzione” – vasto programma. Considerato che il fondo delle Nazioni unite per il programma internazionale dedicato al controllo delle droghe raggiunge a malapena i 200mila euro per il biennio 2018-2019 è chiaro che da qualche parte c’è un problema strutturale che forse va oltre i contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni unite.

Secondo la letteratura ufficiale, gli obiettivi dell’ufficio sarebbero perseguiti attraverso: ricerca indipendente, consulenza e sostegno ai governi nella “adozione e attuazione di varie convenzioni contro criminalità organizzata, droga, terrorismo, corruzione, trattati, protocolli così come assistenza tecnica e finanziaria ai suddetti governi per affrontare queste situazioni nei loro Paesi”. Da 20 anni a questa parte, l’Unodc pubblica il Rapporto Mondiale sulle Droghe in occasione della giornata mondiale del 26 giugno.

Fino a quando erano gli italiani a dirigere l’ufficio, almeno sulla carta persone come Pino Arlacchi e Antonio Maria Costa avevano, se non altro, i titoli accademici per ambire a un ruolo dirigenziale e manageriale come quello (titoli che si sono rivelati del tutto inadeguati al compito), dall’arrivo del russo Yuri Fedetov si è passati al diplomatico di carriera. Correre il rischio di avere un poliziotto, per giunta cinese, potrebbe non esser in linea col necessario aggiornamento di approccio globale alle sostanze proibite in risposta agli aspetti positivi che la regolamentazione legale della cannabis, l’impiego terapeutico di altre altre sostanze controllate e il rilassamento delle pene per uso personale di stupefacenti stanno dimostrando.

E’ vero che le decisioni politiche avvenute dal 1997 al 2002, sotto i direttori “Made in Italy”, non si sono distaccate di una virgola dal credo proibizionista della famigerata “guerra alla droga”, anzi spesso ne hanno rilanciato la peggiore propaganda, ma avere un poliziotto senza esperienza internazionale e e cittadino di uno stato che ancora prevede la pena di morte per reati di droga, sicuramente presenta problemi a più livelli.

Infatti, se si considera che, di norma, il paese che ottiene la direzione di un’agenzia delle Nazioni unite per un connazionale finanzia la maggior parte del budget generale – e quindi assume significativo potere decisionale su cosa fare e come farlo -, c’è poco da essere ottimisti circa la piena applicazione dei documenti che, ancora a marzo di quest’anno, sono stati adottati da riunioni ministeriali convocate appositamente e che dal 2016 hanno iniziato a prender atto che le opinioni sul “controllo mondiale delle droghe” si stanno diversificando.

Che la Cina sia destinata ad assumere progressivamente posizioni di rilievo nelle organizzazioni internazionali è inevitabile – specie in una fase storica in cui gli Stati uniti paiono totalmente disinteressati dalle dinamiche multilaterali -, ma che non si tenti alcuna azione preventiva, o mediazione, affinché si possano limitare le presenze cinesi in ambiti in cui le libertà personali sono una parte importante delle attività delle organizzazioni internazionali in cui i cittadini della Repubblica popolare occuperanno posti di rilievo equivarrebbe a incamminarsi verso la strada – senza ritorno – della cinesizzazione delle relazioni internazionali già prepotentemente avviata con le cosiddette opportunità offerte dalla “via della seta”. Chi ci penserà?