News internazionali 10 febbraio 2018

Mettiamo a disposizione, per gli ascoltatori de “Il Maratoneta” su Radio Radicale e per tutti gli interessati, una selezione di notizie dal mondo della ricerca scientifica. 

Potete trovare la puntata del Maratoneta di sabato 10 febbraio 2018, condotta da Mirella Parachini , sul sito di Radio Radicale qui

Notizie scientifiche recenti

  • Attenzione agli specchietti per allodole: gli unguenti alla marijuana come trattamenti contro i sintomi oncologici rimangono una prospettiva lontana. Di Aymen Idris su The Scientist qui.

Il dolore cronico come conseguenza di certi tipi di cancro o di certe terapie oncologiche può essere grave e debilitante. La mancanza di antidolorifici efficaci ha spinto molti pazienti oncologici a rivolgersi a metodi alternativi, e in questo settore la cannabis terapeutica ha attirato da tempo molta attenzione da parte della comunità medica. Nonostante una sempre maggiore base di dati ed evidenze che suggeriscono un potenziale uso di alcuni derivati della cannabis nel trattamento dei sintomi in pazienti affetti da cancro, alcuni prodotti “recenti” ampiamente pubblicizzati, come creme e oli alla cannabis, non sono – allo stato attuale delle cose – supportati da altrettanti studi.

Su internet, è facile reperire una moltitudine di creme, ungenti oli e altri preparati, e la loro popolarità è in continua crescita tra i pazienti in cerca di nuove terapie del dolore, a volte venduti come alternative vere e proprie alle terapie oncologiche classiche.

Come scrive l’autore, Internet e i media mainstream sono pieni di evidenze aneddotiche che suggeriscono benefici legati all’uso di unguenti cannabinoidi come terapia complementare associata a varie complicazioni legate alle malattie oncologiche, inclusi presunti effetti diretti sulla diffusione delle masse tumorali. Al momento, si tratta di affermazioni non supportate da prove cliniche, oltre al fatto che i preparati in commercio non seguono in molti casi standard rigorosi ed affidabili. È opportuno dunque avere cautela e, in particolare per il bene dei pazienti, leggere queste informazioni cum grano salis.

Idris è senior lecturer presso l’università di Sheffield. È promotore di diverse campagne per l’uso terapeutico dei derivati della Cannabis ed è l’autore di un brevetto sull’uso dei recettori dei cannabinoidi per il trattamento di alcune malattie delle ossa.

  • Nuove politiche anti inquinamento: l’UN IMO (United Nations International Maritime Organization) si appresta a colpire le emissioni delle navi cargo. Qui su Nature, di Jeff Tollefson.
I motori diesel delle navi cargo utilizzano uno dei combustibili più inquinanti al mondo, il cosiddetto petrolio “bunker”. Si tratta di un prodotto di risulta, molto viscoso, che rimane dopo la raffinazione di combustibili più leggeri (come benzina, nafta o diesel). Contiene residui di metalli pesanti e moltissime quantità di zolfo, e viene utilizzato sopratutto perché è in assoluto il più economico, cosa che consente di mantenere contenuti i costi di trasporto via mare. Si cercano da anni soluzioni, in particolare per poter ridurre la quantità di zolfo massimo contenuto nel carburante bruciato. Un primo standard del 4,5% fu adottato nel 1997, e l’Organizzazione marittima internazionale (UNIMO) a fine 2016 ha adottato nuove linee guida per ridurre ulteriormente la percentuale di zolfo fino allo 0,5% entro il 2020. Oltre allo zolfo, le emissioni di queste navi includono tonnellate di “Black Carbon” (micro particelle di carbonio prodotte durante combustione incompleta). Passare da il petrolio “bunker” attuale a forme più leggere di combustibile potrebbe ridurre le emissioni dal 35 all’80% (a seconda del tipo di motore).
Al momento, la regolamentazione di UE, USA e Canada si è focalizzata sulla riduzione degli standard di zolfo. Il triste paradosso, evidenziato in questo articolo pubblicato su Nature Communications il 6 Febbraio scorso (qui), della riduzione delle emissioni di zolfo nei carburanti usati dalle navi cargo è che da un lato ci sarebbero dei significativi miglioramenti per la salute umana globale (rischio cardiovascolare globale e cancro ai polmoni attribuito a particolato fine ridotto del 2,6%, e l’incidenza dell’asma infantile del 3,6%) ma simultaneamente comporterebbe ad un incremento del 3% del contributo umano al riscaldamento globale (le particelle leggere contenenti zolfo nell’atmosfera aiutano a raffreddare il pianeta riflettendo la luce solare).

Una ragione ancora maggiore affinché, oltre alla riduzione di zolfo emesso, ci sia una massiccia riduzione di altro particolato fine – che gioca un ruolo significativo nelle emissioni globali.

  • Finanziamenti alla ricerca – in Giappone. Qui su Nature, di Ichiko Fuyuno.
Il governo giapponese ha promesso (a fine gennaio), un rapido cambiamento di rotta sui finanziamenti alla ricerca per il 2018, dopo anni di stagnazione. A detta di scienziati e ricercatori il significativo incremento (del 7%) non sarà comunque sufficiente a far fronte a più di dieci anni di tagli, in cui il budget delle Università e dei centri di ricerca è calato costantemente al ritmo di circa l’1% all’anno. L’investimento totale in ricerca arriverà quest’anno a 35 milioni di dollari, ma arriva dopo stagnazione e tagli dai primi anni 2000. L’obiettivo del governo di Abe è di portare la spesa totale all’1% del PIL, con una crescita di 300 miliardi di Yen all’anno, entro il 2020. Attualmente (rilevazioni 2015) siamo allo 0,65%.
Una delle critiche rivolte alla manovra è che una buona fetta di questo incremento sia in realtà fittizia, ossia nasca da un nuovo modo di conteggiare la spesa pubblica e che consente al governo di distribuire un budget “più generoso di quanto non sia in realtà”.
In ogni caso, le misure arrivano in risposta ad una perdita di posizioni della ricerca giapponese negli ultimi anni, che ha subito la forte crescita cinese, tedesca e sud-coreana.
  • La CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations) preme per la ricerca di nuovi vaccini su malattie tropicali. Qui su Nature, di Declan Butler.
Il virus della Chikungunya, una malattia tropicale trasmessa principalmente dalla puntura di zanzare e diffusa in alcune regioni di Asia, Africa e centro America (tropicali e subtropicali). Sebbene la malattia abbia un decorso breve e una mortalità bassa (circa 1 ogni mille infetti), porta con se molti effetti a lungo termine e in molti pazienti causa forme reumatiche croniche ed invalidanti. Al momento non esiste un vaccino per questa malattia che è diffusa in un areale dove vivono più di un miliardo e 300 milioni di persone. L’ultima epidemia, nel periodo 2013/2015 nei Caraibi francesi aveva infettato quasi la metà della popolazione locale, e molti di questi pazienti soffrono ancora delle conseguenze della malattia.
Spinti dall’urgenza di arrivare ad un vaccino prima di nuove ondate epidemiche, il 5/6 febbraio scorso a New Delhi si è tenuta una conferenza per raccogliere i progressi recenti su alcuni vaccini candidati, e per capire come portare i più promettenti fra questi sul mercato.

Particolarmente attiva nella promozione di un vaccino è la CEPI, una influente organizzazione basata ad Oslo e fondata nel 2017 per la promozione di ricerche per sconfiggere malattie epidemiche. Tra i membri troviamo la Bill & Melinda Gates Foundation, il World Economic Forum, la Commissione Europe e diversi governi, tra cui quelli di Germania e Giappone.
Secondo i dati del dossier CEPI, per quanto riguarda il vaccino per la Chikungunya esistono 16 “candidati vaccini” in fase preclinica su animali, e 2 sono in fase clinica su esseri umani.

Segnalazioni:

  • Our science, our society, editoriale di Susan Hockfield, presidente dell’AAAS e presidente emerita del Massachusetts Institute of Technology, su Science qui.

Sul rapporto tra scienza e democrazia. Scrive la Hockfield che “the very institutions that support individual inquiry also guard democratic principles and foster human advance”. È facile pensare che queste istituzioni possano resistere da sole, ma non è così: è nostra responsabilità comune, come scienziati e ricercatori, difenderle attivamente.