Legge sul fine vita, ce la chiede anche l’Europa

testamento-biologico

Secondo l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, la libertà di scelta terapeutica sulle questioni di fine vita rientra nel campo del diritto fondamentale al rispetto della propria vita privata. Inoltre – secondo il nostro codice penale – l’aiuto non costituisce di per sé istigazione al suicidio. Quel che manca, in Italia, è la volontà politica di legiferare in materia e di recepire quel che ci viene chiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pubblichiamo l’intervento di Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, al convegno “Autodeterminazione terapeutica e questioni di fine vita”, promosso dall’Associazione Luca Coscioni lo scorso 23 ottobre a Roma, insieme agli Avvocati Matrimonialisti Italiani, all’Associazione Walter Piludu e all’Associazione A Buon Diritto, con il patrocinio del Consiglio Nazionale Forense.

di Vladimiro Zagrebelsky

1. Il rilievo dell’autodeterminazione in campo medico e nella gestione della propria salute e della propria vita assume una varietà di aspetti che vanno considerati separatamente. La portata della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nella casistica sottoposta all’esame della Corte europea, mostra come il tema richieda attenta considerazione dei profili specifici ad ogni singola situazione. Il rilievo nel sistema interno della giurisprudenza della Corte europea, secondo lo schema delineato dalla Corte costituzionale, a partire dalle sue sentenze n. 347 e 348/2007, richiede preliminarmente la ricostruzione delle rationes decidendi adottate dalla Corte europea nei singoli casi. Sarà l’esito di quella ricostruzione a fungere da punto di riferimento per l’opera dell’interprete della legge nazionale al fine di renderla compatibile con la Convenzione o, se un tal esito fosse impossibile, sottoporre la questione di costituzionalità alla Corte costituzionale ex art. 117 Cost.

2. Benchè talora i ricorsi decisi dalla Corte abbiano posto il problema della compatibilità delle vicende con una varietà di articoli della Convenzione europea (artt. 2, 3, 5, 6, 8, 14), il cuore e il maggior fondamento delle tesi prospettate dai ricorrenti riguarda il diritto al rispetto della vita privata e il divieto di discriminazione (artt. 8 e 14 Conv.). A tali articoli farò quindi riferimento nel ricostruire e discutere la giurisprudenza della Corte europea con specifico riferimento a casi in cui è stato fatto valere il diritto a porre termine alla propria vita mediante la cessazione di trattamenti vitali o con la assunzione di sostanze letali e ad essere a tal fine aiutati da altri o facilitati da condotte richieste all’autorità pubblica. Tali casi si distinguono evidentemente da quelli, anche sottoposti all’esame della Corte, che attengono alla decisione assunta in ambito ospedaliero di interrompere il trattamento di persone che sono artificialmente mantenute in vita e che si trovano in stato d’incapacità di comprendere e decidere (Lambert c. FranciaGard c. Regno Unito). La differenza risiede innanzitutto nella presenza di una decisione attuale di morire da parte della persona stessa e talora nella richiesta di somministrazione di sostanze letali, anziché della sola cessazione di trattamenti vitali1. Rispetto ad altre situazioni (siano esse di imminente fine vita o no), quella dell’adulto capace di comprendere e decidere pone nella più chiara evidenza il tema dell’autonomia personale e del diritto di vederla rispettata.

3. La giurisprudenza della Corte europea in applicazione della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali può così essere ricostruita a partire dalla prima fondamentale sentenza in materia (Pretty c. Regno Unito)2concernente il caso di una persona, gravemente e irreversibilmente malata –ma non in fine vita- e pienamente capace di liberamente decidere di morire, ma impossibilitata a provvedere autonomamente agli atti necessari. Il marito era disposto ad aiutarla, se solo l’autorità giudiziaria gli avesse garantito l’impunità rispetto alla norma penale incriminante l’aiuto al suicidio.
Dalla sentenza della Corte si ricava che il diritto all’autodeterminazione personale, pur non espressamente enunciato, è il terreno su cui poggia in via generale l’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione, che prevede il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Tale diritto riguarda anche i comportamenti che pongono a rischio la salute e la stessa vita della persona. Una persona può rifiutare di consentire a trattamenti che potrebbero prolungarne la vita, scegliendo di evitare ciò che a suo giudizio sarebbe una fine della vita dolorosa e non dignitosa. «La dignità e la libertà dell’uomo sono l’essenza stessa della Convenzione. Senza in alcun modo negare il principio del carattere sacro della vita protetta dalla Convenzione, la Corte ritiene che la nozione di qualità della vita prenda significato nel quadro dell’art. 8 della Convenzione. In un’epoca in cui si assiste a una sempre crescente sofisticazione medica e a un aumento della speranza di vita, molte persone temono di essere forzate a rimanere in vita fino a età molto avanzata o a uno stato di grave decadimento fisico o mentale agli antipodi della considerazione profonda che esse hanno di sé e della loro identità personale». A condizione che la persona sia in grado di decidere liberamente in ordine alle modalità e al momento della fine della propria vita si è in presenza di un diritto fondato sull’art. 8 Conv.3

Consegue che interferenze statali di carattere obbligatorio o penale intanto sono legittime, in quanto giustificate rispetto ai limiti ammessi dall’art. 8/2 Conv., cioè che siano previste dalla legge, necessarie e proporzionate rispetto a uno o più degli scopi legittimi indicati da tale disposizione4. Trattandosi di un diritto ricavabile dall’art. 8 Conv. esso non solo non può essere negato dal diritto interno, ma anzi deve essere garantito mediante un efficace ricorso al giudice5.
Nel quadro della Convenzione, è possibile ritenere che lo Stato sia tenuto a intervenire per consentire alla persona di realizzare l’oggetto della sua autonoma decisione (obbligazioni positive), pur nei limiti posti dall’esigenza di garantire che decisioni di porre fine alla propria vita non sia precipitosa, viziata, non libera6.

4. Nel caso della ricorrente Pretty si poneva la questione della compatibilità con l’art. 8 Conv. di una norma penale (Suicide Act del Regno Unitoche impediva che altri provvedesse a cagionare la morte da essa decisa, senza distinguere il suo caso da quelli di persone vulnerabili, di dubbia capacità di intendere e volere, possibili oggetto di pressioni e limitazioni della libertà. Lo scopo legittimo di norme poste a tutela di persone così vulnerabili non poteva giustificare la costrizione imposta a chi era in grado di liberamente e consapevolmente decidere sul momento e sulle modalità della fine della propria vita. L’argomento portato dalla ricorrente è stato respinto dalla Corte europea, che ha invece accolto la posizione del governo, affermando che il generale divieto, senza distinzioni legate allo stato specifico dell’una o dell’altra persona, è giustificato dalla difficoltà in concreto di accertare le diverse situazioni e dal rischio di abusi che potrebbero derivare dall’introduzione di un’eccezione al generale divieto di suicidio assistito (per le persone capaci di assumere una decisione libera e consapevole).

E anche la specifica situazione di chi non sia fisicamente in grado di porre in essere la decisione di morire, è stata ritenuta difficilmente disciplinabile da una norma di legge. La Corte così ha anche escluso che la mancata considerazione della differente condizione della ricorrente (fisicamente incapace di esercitare da sé il diritto di suicidarsi) desse luogo a una discriminazione vietata dall’art. 14 Conv. Va però rilevato quanto discutibile sia l’argomento accolto dalla Corte, legato all’affermata difficoltà di escludere dalla portata della legge penale che sanziona l’aiuto al suicidio i casi di piena capacità di determinarsi e quelli di impossibilità di autonomamente realizzare il suicidio deliberato. Simili difficoltà di accertamento di fatto sono il quotidiano impegno del giudice e nel caso oggetto del ricorso la Corte europea aveva di fronte l’evidenza indiscutibile della piena capacità psichica (attestata dai giudici nazionali) e della incapacità fisica della ricorrente.

Ma la Corte europea argomenta sul punto della proporzionalità della legislazione penale applicabile nel caso della ricorrente, rilevando che la previsione di responsabilità penale per chi aiuti altri a morire è accompagnata (nel sistema britannico oggetto del ricorso) dalla possibilità che il Pubblico Ministero valuti discrezionalmente se esercitare l’azione penale: «innanzitutto l’azione penale non può essere esercitata senza l’accordo del DPP (Director of Public Prosecutions); inoltre la legge prevede solo una pena massima, ciò che permette di infliggere una pena minima se ritenuta adeguata», cosicchè ad avviso della Corte non è arbitrario che la legge «rifletta l’importanza del diritto alla vita vietando il suicidio assistito prevedendo un regime di applicazione del divieto e di applicazione della legge che permette di tener conto in ogni caso concreto tanto dell’interesse pubblico a esercitare l’azione penale, che le esigenze giuste e adeguate di retribuzione e dissuasione».

5. In conclusione la Corte ha ritenuto giustificato – e comunque tale da rientrare nell’ambito del margine di apprezzamento nazionale – un divieto generale di aiuto all’altrui suicidio, senza distinzioni legate al grado di consapevolezza e libertà di decisione della persona o alla sua capacità di provvedere autonomamente a porre fine alla propria vita. Ma, in ordine al requisito della proporzionalità dell’interferenza statale nell’esercizione dell’autodeterminazione della persona, la Corte ha espresso il suo giudizio richiamando la specifica flessibilità del sistema processuale britannico (azione penale discrezionale) e l’assenza di un minimo edittale della pena. La astrattezza e generalità della norma scritta, incapace di tener conto della specificità di ogni singola vicenda, è compensata cioè dalla duttilità del sistema processuale e dall’inesistenza di un minimo fisso di pena edittale. E per ciò è stato possibile alla Corte ammettere che il sistema nel suo complesso risponde al requisito della proporzione dell’interferenza statale.

E’ dunque questa la ragione per cui la Corte – che produce giurisprudenza casistica, legata al caso concreto – ha ritenuto non violato l’art. 8 Conv. anche se la ricorrente era certo in condizione psicologiche tali da escludere la sua vulnerabilità e il rischio che finisse vittima di abusi.

6. Accertato che dall’art. 8 Conv. si trae che la scelta di por fine alla propria vita rientra nel campo del diritto fondamentale al rispetto della propria vita privata7 e che in proposito l’intervento legislativo dello Stato può esercitarsi solo nei limiti posti dal secondo comma dello stesso articolo, ci si può chiedere se la normativa italiana sia compatibile con gli obblighi assunti dall’Italia nel ratificare la Convenzione. La risposta non può essere positiva.

Come si sa a lungo il suicidio stesso venne ritenuto illecito, tanto che per secoli vennero inflitte sanzioni di carattere religioso e secolare che, non potendo colpire il morto, ne umiliavano il cadavere. Ed anche il suicidio mancato era giudicato illecito. Più recentemente la barbarie di un simile regime ha portato a escludere sanzioni per il caso di suicidio o tentato suicidio. L’impossibilità di punire il morto, l’ingiustizia di sanzioni come la confisca dei beni che colpiva la famiglia, l’assurdità di accanirsi sul cadavere, l’ulteriore incentivo a suicidarsi che derivava, per il suicida mancato, dal dover oltre tutto subire una pena, tutto ciò è elencato dal classico Carrara8, pur senza ammettere che il suicidio sia una espressione della intangibile autonomia della persona. Ma venuta meno la previsione di una pena per il suicida e il suicida mancato, volendo cionondimeno punire chi aiuti il suicida a realizzare il suo proposito è stato necessario escogitare una fattispecie incriminatrice autonoma. Era infatti impossibile ricorrere all’ordinario operare delle norme sul concorso nel reato.

L’art. 580 C.p. considera equivalenti l’istigazione e l’aiuto al suicidio; prevede la pena della reclusione da cinque a dodici anni; stabilisce una pena minore se il suicidio non avviene ma derivano lesioni personali gravi o gravissime. Lo stesso art. 580, al comma 2, stabilisce che la pena è aumentata se la persona istigata o aiutata è minore di diciotto anni o è inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica per altra infernità ovvero per abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti. Si applicano poi le norme relative all’omicidio quando la persona istigata o aiutata è minore di quattordici anni o è comunque priva della capacità di intendere e di volere.

Il fatto che le situazioni considerate dal secondo comma dell’art. 580 C.p. diano luogo a un aggravamento di pena o all’applicazione delle norme sull’omicidio, indica che le pene stabilite per la fattispecie-base di cui al comma primo si riferiscono all’aiuto o all’istigazione di una persona che sia pienamente capace di intendere e di volere, libera e consapevole nella sua decisione di morire.

Si può a questo punto rilevare:

– che la normativa in materia equipara condotte del tutto diverse, sia materialmente che sul piano della lesività dell’interesse che la norma intende tutelare;

– che la distinta menzione dell’istigazione e dell’aiuto implica che, nella previsione normativa, l’aiuto non costituisce di per sé istigazione;

– che nessuna rilevanza viene assegnata all’autonomia della persona in ordine alla fine della propria vita e ciò specificamente quando si tratti di incriminare l’aiuto da terzi fornito alla persona che liberamente ha deciso di morire;

– che la considerazione che il giudice voglia riconoscere a particolarità del caso concreto nel determinare la pena da infliggere, ai sensi dell’art. 133 C.p., trova un limite nella elevata pena minima edittale (salve le eventuali attenuanti comuni o generiche di cui agli artt. 62, 62bis C.p.);

– che infine nessun aiuto nell’adattare la reazione penale alle specifiche particolarità di ciascun caso viene, nel sistema italiano, dall’obbligatorietà della azione penale, che impedisce di tener conto con lo strumento processuale di ciò che (irragionevolmente) la norma sostanziale ignora.

Le caratteristiche del complesso normativo italiano, sostanziale e processuale, mettono conclusivamente in evidenza il conflitto con ciò che si ricava dall’art. 8 Conv. come interpretato ed applicato dalla Corte europea. Mancano infatti i profili della disciplina penalistica britannica che hanno consentito alla Corte europea di ritenere che un generale divieto di aiuto al suicidio possa rispondere al requisito della proporzionalità rispetto ad esigenze legittime (necessità in uno Stato democratico, nel linguaggio dell’art. 8 Conv.). In assenza di un intervento legislativo di riforma e se si rivelasse impossibile una interpretazione adeguatrice dell’art. 580 C.p., il sistema di raccordo tra la normativa interna e quella derivante dalla Convenzione europea dei diritti umani prevede l’intervento e il giudizio della Corte costituzionale.

NOTE

1  Per l’irragionevolezza del riconoscimento del diritto di rifiutare cure e così procurarsi la morte con il disconoscimento del diritto di chiedere, allo stesso scopo, la somministrazione di sostanze letali, v. Casonato C., Fine vita: diritto all’autodeterminazione, in Il Mulino, n. 4/17.

2  Pretty c. Regno Unito, 29 aprile 2002, §§ 61-78, 85-90 (conforme la decisione Nicklinson e Lamb c. Regno Unito, 23 giugno 2015)
3  Conforme anche Haas c. Svizzera, 20 gennaio 2011, § 51. La condizione legata alla capacià e libertà di decidere è da un lato ovvia, ma dall’altro è di estrema delicatezza quando se ne debba accertare la presenza nei casi concreti. Se può essere incontestabile che è inesistente in caso di malattia di mente, non si può in caso diverso ammettere che le autorità pubbliche sostituiscano il proprio giudizio sulla ragionevolezza della decisione di morire a quello maturato dalla persona interessata.
4  Si tratta di sicurezza nazionale, sicurezza pubblica, benessere economico del Paese, prevenzione di disordini e crimini, protezione della salute e della morale, protezione dei diritti e libertà di altri. Ciascuna di tali ragioni giustificatici di un’interferenza statale (legale e proporzionata) si adatta diversamente a ognuno degli estremamente vari aspetti che assume la vita privata del cui rispetto si tratta nell’art. 8 Conv.
5  Koch c. Germania, 19 luglio 2012, §§ 51-54, 69-72.
6  Haas c. Svizzera, cit., §§ 52-58.
7  Prima della sentenza Pretty c. Regno Unito, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con la Raccomandazione 1418/1999 del 25 giugno 1999, relativa ai diritti umani e alla dignità dei malati incurabili e dei moribondi, ha discusso una condizione non considerata espressamente dalla Convenzione di Oviedo (1997) per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano rispetto alle applicazioni della biologia e della medicina (sottoscritta ma non ratificata dall’Italia). La Raccomandazione richiama la precedente Raccomandazione 779/76 e la Risoluzione 613/76 richiedendo agli Stati membri di assicurare una serie di misure a tutela dei malati incurabili e terminali (in particolare le cure palliative). La Raccomandazione tra l’altro afferma che il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o morente non può fungere da giustificazione di azioni di terzi destinate a determinare la morte.
8  Carrara F., Programma del corso di diritto criminale, parte speciale, vol.I, Lucca, 1881, §§ 1151-1158 e vol.II, Lucca, 1887, §§ 1407-1408.