Radical Choc – Colloquio con Marco Cappato

Il caso dj Fabo è l’inizio di una nuova lotta. Per il binomio scienza-democrazia. Su cui si gioca il futuro dell’umanità. Parla il leader dell’Associazione Luca Coscioni.

Non ci può essere un’epoca storica peggiore di questa, per i Radicali. Storicamente europeisti, mentre l’Europa unita va in cocci. Tenacemente libertarari, mentre il mondo si affida a leader autoritari. Geneticamente occidentalisti, mentre l’Occidente ha perso le sue bussole. Profondamente liberali, .mentre il modello liberale è diventato sinonimo di élite da abbattere. Non bastasse, rimasti orfani del loro carismatico fondatore, gli eredi di Pannella hanno pensato bene di iniziare a litigare tra loro fino a dividersi con tanto di carte bollate, accuse di tradimento, minacce di sfratto dalla storica sede romana di via di Torre Argentina.

Ed è questo disastro che, proprio secondo il modello di resilienza caro a Marco Pannella, i Radicali hanno rilanciato. Con una loro battaglia politica di sempre – il diritto a decidere sul proprio corpo – e la sua deliberata mediatizzazione: i videoappelli del dj Fabo Antoniani, il viaggio in Svizzera, il suicidio assistito e l’autodenuncia di chi lo ha accompagnato a morire. Cioè Marco Cappato, 46 anni, nato a Milano, cresciuto in Brianza, il padre ex dirigente alla Piani ascensori, la madre già insegnante e poi casalinga, una militanza radicale iniziata da ragazzo sulle orme del fratello maggiore, una vita di lotta politica tra antiproibizionismo, tribunali internazionali e Parlamento europeo, fino all’impegno di oggi nell’Associazione Luca Coscioni: la più conosciuta e ricca di iscritti, tra quelle della galassia radicale, capace di smontare negli anni scorsi quasi tutta la legge medievale sulla fecondazione assistita (è grazie a loro, ad esempio, se oggi in Italia è legale l’eterologa) e ora impegnata soprattutto sul fronte della ricerca scientifica e del fine vita.

Cappato, com’è iniziata la vicenda del Dj Fabo?

«Prima dell’estate scorsa, nel 2016, ci ha contattati la sua fidanzata, Valeria. Lei e Fabo volevano sapere in quali strutture sarebbero potuti andare e di chi sarebbero state le responsabilità legali. Lui aveva già deciso di morire appena avrebbe compiuto i 40 anni. Poi sono andato a trovarlo, l’ho conosciuto, abbiamo parlato più volte, sia con lui sia con la madre. A poco a poco, mentre noi facevamo tutte le pratiche per la clinica Dignitas, Fabo ha voluto dare un senso in più alla sua morte facendola diventare un caso pubblico per sensibilizzare la società e la politica sul fine vita, sul diritto al suicido assistito. Lui, che prima non si era mai interessato alla politica né ai diritti civili, ha scoperto l’impegno per gli altri. E cosa siamo arrivati alla parte pubblica, con il videoappello a Mattarella».

Fabo non ha mai avuto alcun dubbio suite sua scelta?

«Mai. Anzi, quando ha avuto l’impressione che la cosa stesse dilatandosi troppo nel tempo – per via delle carte in Svizzera – ha minacciato di non bere e di non mangiare più per farla finita da solo. Un giorno che era molto arrabbiato mi ha detto: Credi che non trovi un amico a cui chiedere di spararmi?!. Era di una determinazione assoluta. Del resto è sempre così, chi ha deciso di ricorrere al suicidio assistito non cambia idea. Come sa, non è la prima persona che ho aiutato ad andarsene secondo le sue volonti».

Quanta volte lo ha fatto, Cappato?

«Negli ultimi dieci anni ho seguito centinaia di persone in vario modo. Cioè con indicazioni, consigli, indirizzi, cause in tribunale, qualche volta anche supporti economici. Ma questa è stata la prima volta che ho accompagnato in macchina fino alla clinica di Zurigo una persona che poi lì si è tolta la vita».

Chi c’era, in quell’auto che è andata in Svizzera?

«Io guidavo. Sono state 5 ore penose verso l’esilio della morte. Gli altri erano in altre macchine».

Articolo 580 Codice Penale: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualche modo l’esecuzione, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.”

«Ovviamente non ho in alcun modo ‘istigato’ Fabo al suicidio. L’ho aiutato a fare quello che da solo non poteva fare. Poi sono andato dai carabinieri di Milano mettendo a verbale, in ogni dettaglio, tutto quello che era successo. Il verbale è stato trasmesso alla Procura e a questo punto i casi sono due: o non sarò processato, e allora chiunque sarà libero di accompagnare i propri cari all’estero come ho fatto io con Fabo; oppure ci sarà un rinvio a giudizio, e il processo sarebbe una straordinaria occasione pubblica per far esplodere il tema e per stimolare il legislatore ad affrontare la questione. Che porta con sé non solo il fine vita, ma molto altra».

Cioè?

«Il rapporto tra il corpo della persona e le imposizioni dello Stato, ma anche la ricerca scientifica nella sua interezza. Siamo già in una fase di sperimentazione di modifica del genoma umano: non ci sono dubbi che nei prossimi cinquant’anni ci sarà un balzo tecnologico senza precedenti di possibilità di modifica della nostra mente e del nostro corpo. Quello è il banco di prova su cui la politica si gioca tutto. O questo balzo si riesce a fare in condizioni di controllo democratico oppure vince il modello cinese, tecnocratico e autoritario. Insomma, attraverso il fine vita vogliamo andare molto più in là, porre anche terni più grandi, di orizzonte mondiale. Quelli su cui st gioca davvero il futuro dell’umanità».

Il binomio Scienza-Democrazia?

«Esatto. Ma non è soltanto la scienza che dev’essere democratica, cioè rispondere al confronto con l’opinione pubblica: è anche il metodo scientifico che può salvare quello democratico. Il metodo scientifico basato sull’empirismo, sulla sperimentazione e sulla dimostrazione. Altro che “fake news“. Vede, la democrazia oggi non è più considerata un valore assoluto in molte parti del mondo: ad esempio, in Sudamerica è un concetto con una popolarità ormai inferiore al 50 per cento. Noi pensiamo che possa ripartire solo dal metodo scientifico».

Grandi obiettivi. Però prima del caso Fabo – e dopo la morte di Pannella – dei Radicali si parlava solo per le loro risse interne: senza che nessuno abbia capito bene su che cosa state litigando.

«La rottura era iniziata già quando Pannella era vivo. In una parte di noi – quella che ha la proprietà dei simboli, della sede e della radio – prevale la paura dell’omologazione, cioè il timore di diventare un partitino come gli altri, teso solo alla rappresentanza politica. Noi – Radicali italiani, l’associazione Coscioni etc – pensiamo che questo astenersi da battaglie che investono realtà sociali concrete, a parte quella fondamentale sulla giustizia, porti di fatto alla chiusura del partito: quindi rilanciamo con iniziative che toccano questioni sociali diverse, dall’immigrazione all’antiproibizionismo, anche presentandoci a elezioni locali quando ci sono le condizioni, come abbiamo fatto a Milano e a Roma. La galassia radicale ha bisogno di uscire dal recinto del confronto interno e di coinvolgere l’opinione pubblica su grandi obiettivi, altrimenti arriva la morte per asfissia, per autoreferenzialità».

A molti sembra che il vostro ruolo storico di partito anti regime sia stato ormai assorbito dal Movimento 5 Stelle. Che qualcuno considera una specie di “partito radicale di massa”, forse perché siete stati i primi a combattere “la casta” e il finanziamento pubblico dei partiti…

«Ci sono differenze enormi, di metodo prima ancora che di contenuto, tra Movimento 5 Stelle e Radicali. Loro costruiscono la loro identità attaccando l’avversario, noi cercando nell’avversario il meglio che ha in sé; loro promettendo di cambiare tutto prendendo il potere, noi cercando di cambiare qualcosa senza occupare il potere; loro cercando di vincere, noi di convincere; loro rifiutando qualsiasi alleanza, noi alleandoci con chiunque ci permetta da raggiungere un obiettivo politico. E poi, noi siamo davvero nonviolenti»

Il M5S non è violento.

«Per noi nonviolenza è qualcosa di più di “non picchiare il nemico’. È il dialogo con l’avversario, è non sputargli in faccia, è pensare che si possa costruire qualcosa insieme. Grillo invece, lo dice lui stesso, è un monologhista: non è interessato al dialogo, all’ascolto, alla contaminazione. E poi, vede, anche in questa cosa della legalità, siamo diversissimi da loro».

In che senso?

«Nel Movimento 5 Stelle manca il riferimento liberale della forza del diritto, delle regole che sono sopra tutto. Noi abbiamo l’ossessione del diritto; loro appunto della legalità, che è una categoria diversa dal diritto, quasi moralistica. E questa è una conseguenza della loro scarsa cultura liberale. Una cosa molto italiana, non è un caso che il fenomeno Grillo sia nato in Italia».

Cosa intende dire?

«Da noi la tradizione comunista e quella democristiana hanno sempre anteposto al diritto i loro rispettivi obiettivi, ideologici o religiosi. E questa scarsa cultura liberale ha finito per tracimare anche nella visione delle cose del Movimento 5 Stelle».

Qualcuno in compenso dice che siete un po’ troppo filo-renziani, anche perché lei a Milano si è accordato con Sala…

«Io in verità ho capito molto presto che i grandi annunci di Renzi – modernizzazione, liberalizzazione, guerra alle incrostazioni che impediscono una vera rivoluzione liberale in Italia – sarebbero rimasti allo stadio simbolico, senza conseguenze concrete. E l’ho capito perché ho visto ripetersi il film di vent’anni fa, quando anche Berlusconi aveva preso gli stessi impegni e Pannella era andato a vedere se bluffava o faceva sul serio. La rivoluzione liberale “all’americana” non l’hanno fatta né Renzi né Berlusconi: entrambi l’hanno solo annunciata, poi hanno pensato a se stessi e al potere».

Voi vi definite, anche per statuto, liberali e liberisti. Renzi non lo è stato abbastanza?

«In Italia quello che viene chiamato liberismo è una parodia del liberismo vero. Le possibilità di una grande riforma liberale in Italia si è scontrata con il fatto che si sono fatte riforme in modo finto, tradendone gli obiettivi di fondo e quindi mettendo in crisi chi a quegli obiettivi ideali puntava. Come noi, che siamo liberali e liberisti ma lontanissimi da quell’intreccio di interessi tra pubblico e privato che, erroneamente, qui viene chiamato liberismo».

Lei ha votato Si o No al referendum? Voi Radicali siete sempre stati maggioritari…

«Ho votato No, decidendo solo l’ultimo giorno. Da un lato c’era il rischio di tornare al proporzionalismo, alla partitocrazia, come un po’ sta avvenendo; dall’altro lato, il decisionismo renziano era una verticalizzazione del potere in assenza di garanzie e di valorizzazione del ruolo del Parlamento. Alla fine il secondo pericolo mi è sembrato maggiore. Nel modello americano c’è un Presidente forte ed eletto dai cittadini, ma quando entra alla Casa Bianca poi deve conquistarsi ogni giorno il consenso in Parlamento, che ha una grande forza e una grande autonomia. Quello italiano invece era un falso maggioritario, costruito attraverso i partiti e la confusione tra governo e Parlamento. Maggioritario non vuol dire regalare un pacco di parlamentari al servizio del premier».

Restano i diritti civili. Renzi qualcosa ha fatto, questo glielo riconoscete?

«Nel 2017 le unioni civili, così come sono state approvate, erano davvero il minimo sindacale – e sono il minimo in Europa. Poi, naturalmente, è bene che ci siamo arrivati. Per il resto è ancora tutto o quasi da fare, dalla libertà scientifica al fine vita, dall’antiproibizionismo ai diritti dei disabili, dalle carceri all’integrazione dei migranti».

Le manca Marco Pannella? 

«Pannella l’ho visto per la prima volta a nove anni, a un comizio a Monza a cui mi aveva portato mio padre, militante repubblicano. L’ho conosciuto nel 1992, a 21 anni, quando mio fratello si è presentato con i Radicali per il consiglio comunale. Poi l’ho frequentato per 25 anni, ho anche vissuto a casa sua in via della Panetteria. Oggi è molto doloroso quando tanti miei compagni radicali ci accusano di aver “tradito” il Pannella morente. Lo è per me, s’immagini quanto lo possa essere per Emma Bonino. Ma non diremo mai che oggi Marco “starebbe con noi” – e solo un idiota potrebbe pensare di essere l’erede di Pannella. Anzi, dico che se fosse vivo forse ci urlerebbe contro. Ma faccio, con i miei compagni, le battaglie in cui credo, cercando di coinvolgere l’opinione pubblica sugli obiettivi. A partire dal mandato fondamentale dell’Associazione Coscioni, cioè il diritto alla scienza: quello degli scienziati ad accedere alla ricerca e quello dei cittadini a beneficiare degli effetti di questa ricerca».

Accompagnerà altre persone in quella clinica vicino a Zurigo?

«Sì, ci sono due casi di cui mi sto occupando. Ma non sarà una replica di quanto avvenuto con dj Fabo. Servirà a loro, per andarsene come vogliono. E ovviamente a porre di nuovo la questione giudiziaria: o mi processano, o anche questi saranno dei precedenti per stabilire la liceità di quello che facciamo. E conquistare così un altro pezzettino di libertà per tutti»

Firma anche tu l’appello per la legge sul testamento biologico!