Dignitas e Pietas: valori dimenticati

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Dignitas è il nome della clinica svizzera in cui nel giro di due giorni due nostri connazionali, Fabiano e Giovanni, sono andati a cercare quella dignità che il nostro Stato non è in grado di fornire a malati che non riescono più a sopportare il peso della loro vita.

Dignità che si può perdere quando la salute ci abbandona e la malattia ci costringe a vivere in un corpo che non ci risponde più e ci imprigiona in un ergastolo senza speranza, con un’unica prospettiva: attendere la fine come una liberazione. E come loro tanti altri, meno noti ma ugualmente determinati a cercare altrove quel-lo che da noi non è negato: il diritto di vivere la propria morte.

Mi ha colpito come un pugno allo stomaco uno struggente video del Dj Fabo in cui dichiarava di sentirsi umiliato dalle proprie condizioni, immobile e al buio, consapevole che la propria condizione insopportabile sarebbe potuta durare per decenni, con la mente lucida e nemmeno la forza di stringere le mani della donna che amava. Parole simili a quelle pronunciate da Giovanni in un’intervista in cui ha dichiarato che avrebbe potuto vivere ancora mesi, forse anni, senza riuscire a mangiare, a parlare, a dormire, tra dolori lancinanti descrivendo tale condizione come una sofferenza senza senso.

Parole non diverse neppure da quelle pronunciate molti anni fa da Piergiorgio Welby e più recentemente dalle tante persone che hanno chiesto aiuto all’Associazione Luca Coscioni e che vorrei poter ricordare tutte.

Mi hanno disgustato alcune dichiarazioni che ho sentito in questi giorni, traboccanti di luoghi comuni e di superficialità, di coloro che danno giudizi tranchant sulle motivazioni che hanno condotto persone che non conoscono, con un vissuto che ignorano, ad acquisire la consapevolezza che la morte sarebbe stata preferibile alla loro “non vita” attraverso un percorso che non sono neppure in grado di immaginare. La dichiarazione più irrispettosa, e, lasciatemelo dire più odiosa, che ho sentito è stata quella che affermava con sicumera che la causa di queste morti sarebbe da ricercare nella solitudine, nella mancanza di amore e nell’incapacità di vedere la bellezza della vita.

Quale bellezza? Quale vita? E soprattutto: quale solitudine? Tutte le persone che ho citato avevano vite diverse ma con una costante in comune: un forte attaccamento alla vita, un’esistenza piena di soddisfazioni, una famiglia, degli affetti e degli amori che non li hanno mai abbandonati eche hanno avuto la forza di lasciarli andare, con grande generosità e rispetto, condividendo con loro empaticamente tutto il percorso. Familiari, amori e amici animati da quella “com-passione”che non ho invece sentito in tante prese di posizione demagogiche e fredde, provenienti proprio da chi cerca di impedire l’autodeterminazione del fine vita in nome di valori che, nei fatti, non dimostra di possedere.

Delle tante assurdità che ho sentito, ce n’è una che voglio seccamente rispedire al mittente: l’accusa di strumentalizzare queste morti da parte dell’associazione di cui sono, con grande orgoglio, co-presidente. Parlare di queste mortie raccontare il percorso e il contesto in cui sono maturate queste scelte non è affatto mancanza di compassione ma rispetto di un impegno preso: dare voce a chi, in vita, non è stato ascoltato.

L’ultimo profondo desiderio di tutte queste persone è stato quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici, nella speranza di poter risparmiare a chi, dopo di loro, si troverà nella medesima condizione la frustrazione di vedersi negata la libertà di decidere della propria vita. Non mi stancherò mai di ripetere che di tutte le libertà civili questa è la più importante, la più preziosa, quella che dovrebbe essere maggiormente garantita. Anche un teologo come Vito Mancuso riconosce nella libertà uno dei cardini della spiritualità e della visione cristiana, anche quando si tratta di essere liberi di vivere in modo consapevole, ponderato e maturo anche l’ultima pagina del libro della nostra vita, da protagonisti e con lo stesso stile che l’ha contraddistinta.

All’interno di questa libertà rimane ovviamente la possibilità di scegliere di non porre fine alla propria vita. Sembrerebbe scontato, ma evidentemente non lo è, almeno per chi si oppone con veemenza alla proposta di legalizzare l’eutanasia temendo che questo possa portare a un utilizzo improprio e generalizzato, volto all’eliminazione strumentale delle categorie più fragili della popolazione come anziani, disabili e persino bambini, che meritano più di chiunque altro il massimo rispetto e la massima delicatezza, come ben sa un medico come me che alla cura di una grave malattia genetica dei bambini sta dedicando gran parte della sua vita di ricercatore.

Voglio invitare chi è convinto che l’eutanasia in sé rappresenti un atto violento e impietoso a riflettere su quanta violenza si nasconda nell’impedire a chicchessia scegliere come lasciare la sua vita e sul concetto di Pietas, nell’accezione più pura e nobile del termine: cioè come sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre.

Fabiano, Giovanni e tutti gli altri non chiedevano un consenso o un’assoluzione morale sulle proprie personali e intime scelte, ma solo che fosse concessa loro la possibilità di un esercizio maturo della loro libertà nel proprio letto, nella propria casa, nel proprio Paese. Possibilità che può essere concessa solo da una società e da una cultura permeata da quella Pietas che dovrebbe portare, una volta spenti i riflettori mediatici, a una seria ed onesta attività legislativa sul fine vita libera da ideologie e pregiudizi.