Marco Perduca, Membro di Giunta dell’Associazione Luca Coscioni e Coordinatore della campagna Legalizziamo!, commenta le prime nomine di Donald Trump rispetto alla cannabis.
Gli ultimi sondaggi negli Stati Uniti confermano che, malgrado i risultati delle presidenziali, il 60% degli americani resta a favore della legalizzazione della cannabis. Le percentuali scendono, ma solo di poco, se la domanda viene fatta agli elettori repubblicani.
Secondo l’Economist, solo una decina di anni fa la percentuale era del 30%. Un cambiamento nutrito da modifiche legislative che nell’ultimo decennio hanno visto 26 stati depenalizzare l’uso personale della cannabis, mentre da quest’anno saranno in sette, e il Distretto della Capitale, ad aver legalizzato la pianta. In 28 stati sono legali i medicinali cannabinoidi.
Uno studio del Cowen Group pubblicato qualche settimana prima dei referendum che a novembre hanno legalizzato la marijuana in California, Maine, Massachusetts e Nevada, prevede che l’industria della cannabis negli Stati Uniti possa crescere fino a 50 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, un’espansione di quasi dieci volte superiore alla sua dimensione attuale. La stima include cannabis medica e non.
Di fronte a tutta questa popolarità e al potenziale economico, Donald Trump si muove con circospezione, mandando avanti gli altri membri della sua amministrazione. Trump, che negli anni ’90 era a favore della legalizzazione, è on the record per aver sostenuto la bontà dei farmaci cannabinoidi. In campagna elettorale ha però affermato che il Colorado, lo stato dove da tre anni la cannabis è legale, è un real problem.
Il suo vice Mike Pence, quando era governatore dell’Indiana, si è distinto per aver fatto della penalizzazione, anche dell’uso personale, una priorità. il Senatore Jeff Sessions, scelto come Attorney General, è notoriamente contrario agli spinelli tanto da considerarli l’unica nota stonata nel Ku Klux Klan. Tanto il primo quanto il secondo sono in linea con la tradizione repubblicana che “venera” la sovranità delle scelte statuali e la riduzione dell’influenza del governo federale nelle politiche decise direttamente dai cittadini.
Nelle audizioni in Congresso per la sua conferma, Sessions ha affermato che non potrà non fare applicare la legge federale, che ritiene la marijuana una droga pericolosa, ma, visto che nove arresti per droga su dieci avvengono grazie alle attività delle polizie statali, il governo centrale userà risorse extra per integrare le attività di quelle forze dell’ordine.
Il generale John Kelly, scelto per la Homeland security ha finito la propria carriera al Comando per le azioni in America Latina il cui “fiore all’occhiello” è stato il famigerato “Plan Colombia”, che ha militarizzato la guerra alla droga sulle Ande finanziando gruppi paramilitari, violando diritti umani e fumigando indiscriminatamente valli e fiumi. Kelly non s’è mai pronunciato sulla questione.
Ultimo, ma non meno importante, il candidato a ministro della salute Tom Price è un medico del Tea Party repubblicano molto vicino alle lobby farmaceutiche.
Le maggiori associazioni americane a favore della legalizzazione della marijuana, pur molto preoccupate, non sono totalmente negative sui prossimi anni perché ritengono che il crescente giro d’affari, i dati incoraggianti che arrivano dagli Stati che hanno legalizzato, e la dottrina dello small government possano concorrere a una sorta di armistizio sulla cannabis. Anche i sindacati dei produttori ritengono che il fenomeno ha raggiunto dimensioni tali per non tornare indietro.
Paradossalmente la marijuana made in USA andrebbe nella direzione protezionista prediletta da Trump e conto l’outsourcing della produzione verso il Messico. Tra qualche settimana il quadro sarà più chiaro. O molto più scuro.