Cappato: «Ho aiutato Dominique a morire. Il Parlamento decida»

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l’Unità
Massimiliano Coccia

I telefoni squillano in continuazione alla sede del Partito Radicale a Torre Argentina e Marco Cappato si destreggia tra un cellulare che squilla e una fetta di torta che equivale al suo pranzo. Ha ancora negli occhi il sorriso di Dominique Velati, la donna di 59 anni, radicale, di Borgomanero affetta da un tumore al colon in stato terminale, che lo scorso 15 dicembre, è deceduta con la modalità del suicidio assistito in una clinica svizzera.

Cappato, come procede?
«Ci sono arrivate diverse richieste in queste ore di persone che hanno visto la notizia che ci contattano per sapere come possono ottenere l’eutanasia. Come abbiamo annunciato e dichiarato anche ai carabinieri, noi li aiuteremo e andremo avanti fino a quando non saremo fermati o dalle forze dell’ordine oppure come speriamo finalmente da una discussione e una decisione in Parlamento».

Quindi si è recato dai carabinieri per autodenunciarsi?
«Sì certamente ed è notizia di queste ore che il verbale delle dichiarazioni che ho reso ai carabinieri è stato trasmesso alla Procura».

Dal Governo ancora nessuna risposta?
«La ministra Lorenzin ha dichiarato che bisogna aiutare i malati a vivere e non a morire. Questa per me è una banalità che non tiene conto di quanto sia importante che per vivere occorre essere liberi e non è un aiuto alla vita imporre una sofferenza a qualcuno che non la vuole. Il nostro interlocutore è in ogni caso il Parlamento, i singoli parlamentari. Vorrei ricordare che giace una legge di iniziativa popolare da oltre un anno e mezzo. I capigruppo continuano ad impedire la discussione, nonostante l’appello di malati termini come Fanelli e Piludu e nonostante si sia formato un intergruppo parlamentare con 220 tra deputati e senatori che chiedono la calendarizzazione del fine vita e infine nonostante le 105milapersone che hanno firmato anche su eutanasialegale.it».

Vi siete dotati di uno strumento nuovo a livello associativo?
«Sì, è nata “Sos Eutanasia” è un’associazione di tre persone composta da me, Mina Welby e Gustavo Fraticelli, proprio per assumerci una responsabilità diretta della disobbedienza civile e poter organizzare la nostra azione di aiuto al suicidio assistito. Dal conto di questa associazione è partito il bonifico per il viaggio a Berna di Dominique».

Chi era Dominique Velati?
«Dominique è stata da sempre una militante radicale, che ho incontrato a tutte le iniziative e congressi, era un’infermiera e faceva volontariato in un centro di cure palliative. Conosceva molto bene il cancro quando ha scoperto di essere malata mi ha scritto per avere informazioni e chiarimenti che ho continuato a fornirle per tre mesi, inoltre le ho presentato i responsabili della struttura svizzera dove è deceduta; da radicale Dominique ha scelto di rendere pubblica la sua storia con un solo obiettivo: che se ne parlasse, che i media aprissero un dibattito sull’eutanasia coinvolgendo l’opinione pubblica perché è l’unico modo per costringere il Parlamento a muoversi».

Ma se invece di un percorso veloce vi proponesse una modifica parziale dell’impianto legislativo sulle pene per chi vuole l’eutanasia?
«L’urgenza è che il tema sia all’ordine del giorno, sono fiducioso che il Parlamento ne dibatterà, il risultato questa volta sarà positivo perché l’opinione pubblica è da tempo pronta, lo ha di nuovo dimostrato il sondaggio pubblicato da il Gazzettino che nel Nord Est attesa il 75% di favorevoli all’eutanasia, tra gli elettori della Lega e il 52% di cattolici praticanti».

Potrebbe essere utile un’inchiesta parlamentare sul tema dell’eutanasia bianca, ovvero sulle tante modalità di suicidio assistito che avvengono di nascosto nei reparti di oncologia in Italia?
«Certo, lo avevamo chiesto nove anni fa con Welby. In Olanda la legalizzazione nacque al seguito di una grande inchiesta su come si moriva clandestinamente, certamente conoscere il fenomeno della clandestinità aiuterebbe a trovare soluzioni di Governo, a patto che, si sia pronti a prendere delle decisioni invece che continuare a voltare la testa dall’altra parte e accettare che un migliaio di malati terminali all’anno si suicidino o che una piccola percentuale di malati terminali ottengano ciò che chiedono in esilio in Svizzera».