Cari scienziati, sui vaccini fatevi capire

Il Fatto Quotidiano
Gianvito Martino

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Anche se qualcosa in positivo sembra stia cambiando negli ultimi anni, relativamente al livello di alfabetismo scientifico in Italia, certamente sorprende come la maggioranza dei nostri concittadini sia ancora contraria ai vaccini obbligatori – a fronte delle loro assoluta e comprovata necessità, come ribadito in questi giorni a “BergamoScienza” da eminenti scienziati del calibro del premio Nobel Peter Doherty – o concordi sul fatto che ognuno debba essere libero di usare le terapie che più ritiene opportune, siano queste validate o meno scientificamente.

Ma come è spiegabile che in un mondo sempre più tecnologico, collegato e globale la scienza rimanga, per i più, un’opzione e non un’opportunità? Un’opzione incomprensibile, pericolosa e controproducente, soprattutto per la nostra salute che è si un fatto privato ma che non può essere lasciata alla mercé dei santoni di turno il cui fino unico e ultimo è quello di speculare sulla sofferenza. L’unica spiegazione è che ci portiamo sulle spalle come una zavorra culturale la convinzione che la scienza, di per sé, non è parte della nostra cultura. Non è difficile intravvederne le ragioni.

Uno Stato che ha deciso che la ricerca scientifica non è più una priorità, diminuendo sensibilmente gli investimenti in ricerca e sviluppo così come quelli destinati a percorsi didattico-formativi, non è scevro da responsabilità. Ma anche gli scienziati stessi non sono incolpevoli, soprattutto quando pretendono di formare, e non semplicemente informare, le coscienze: dallo scienziato onnivoro che parla di tutto e non solo di quanto gli compete, allo scienziato irresponsabile che parla anche quando sarebbe meglio tacere.

E i media in tutto questo? La progressiva scomparsa come mezzo di comunicazione di massa della carta stampata è certo tra le cause prime della cosiddetta disinformazione scientifica. Strumenti come la televisione e Internet risultano inappropriati per divulgare la scienza perché soggetti alla cultura della velocità (tratto profondo della modernità) che se da un lato ci consente di raggiungere numeri impensabili prima, dall’altro ci consegna alla conoscenza liquida’ di baumiana memoria, cioè superficiale e raramente approfondita.

La scienza ha bisogno di tempo: basta pensare, tornando al tema della salute, che da 5000 possibili cure se ne riesce a sviluppare una dopo 15 anni di lavoro e dopo un investimento che si aggira attorno al miliardo di euro. Bisogna quindi cambiare il modo di rapportarci alla scienza, il modo con cui la conosciamo e con cui vorremmo farla conoscere. Alcune considerazioni posso essere fatte.

Certamente il primo passo è quello di sviluppare un sistema educativo-formativo, che fin dalla scuola dell’infanzia, contempli come fondanti i temi scientifici e modernizzi gli strumenti di insegnamento e di formazione: sta emergendo l’approccio del cosiddetto blended learning o apprendimento misto che si è dimostrato molto più efficace nello stimolare l’interesse e la partecipazione dello studente. Dovremmo poi sfruttare di più il cosiddetto ‘effetto festival’, daBergamo a Napoli passando per Genova proponendo un processo conoscitivo guidato e facilitato, i festival scientifici rappresentano oggi il format ideale per formare una cultura scientifica collettiva.

Mettendo a frutto tutto questo, il percorso verso una vera società della conoscenza, certamente più equa e solidale, non sarà così accidentato come si presenta oggi. Lo spettacolo della scienza deve prevalere sulla scienza che fa spettacolo.