Dalla Sanità al fisco, i metodi di laboratorio aiutano la politica

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La Stampa Tuttoscienze
Andrea Grignolio

Da alcuni mesi in Europa è in corso un importante dibattito sulla necessità di sviluppare il dialogo tra scienziati e decisori politici. In un editoriale della rivista «Nature», intitolato «Guarda oltre agli spiccioli», si suggeriva ai governanti che devono operare dolorosi ma inevitabili tagli ai servizi sociali, specie quelli sanitari, di utilizzare il metodo della medicina basata sulle prove d’efficacia.

L’idea era di prendere esempio dall’Ufficio gestione e bilancio della Casa Bianca, che svolge un servizio di consulenza per il Presidente degli Stati Uniti, che nel maggio 2012 ha redatto un memorandum nel quale suggerisce che l’allocazione dei fondi per i più vasti servizi socio-sanitari, dal sostegno della prima infanzia agli aiuti domestici per gli anziani, doveva stabilirsi, come nei trial clinici, secondo una scala empirica basata sulla valutazione dei risultati. I servizi che erano in grado di dimostrare, tramite dati e solide prove, che avevano prodotto effetti benefici per i cittadini venivano rifinanziati, quelli le cui prove erano discutibili andavano riconsiderati e implementati caso per caso, mentre quelli che non avevano saputo dimostrare efficacia sociale venivano severamente rivalutati o addirittura eliminati. Nel campo della tassazione – concludeva l’articolo – si era mosso anche il Regno Unito con il modello «Paga ciò che funziona»: solo le organizzazioni filantropiche e i fondi di previdenza che avevano superato una rigorosa selezione per prove d’efficacia, cioè l’effettiva capacità di offrire alla comunità un reale risparmio, potevano essere finanziati dallo Stato tramite sgravi fiscali.

A febbraio e settembre altri due articoli su «Nature» a firma di Lynn Dicks e Ian Boyd, due consulenti scientifici del governo britannico, sottolineavano come nel loro Paese su Ogm e pesticidi si fosse aperto un dibattito di pure opinioni e inutile allarmismo, come quello che ipotizzava la tossicità di alcuni pomodori Ogm o l’imminente estinzione delle api, senza che nessuno si fosse premurato di controllare i dati della letteratura scientifica sull’argomento. Sgomberare il campo dalla retorica e dalle ideologie, tentando di informare correttamente i politici e i legislatori su temi di interesse scientifico – concordavano gli autori – è il compito futuro di questa generazione di scienziati, un primo passo – mi permetto di aggiungere – verso ciò che potremmo definire gli Stati Uniti Europei della Scienza. Sempre di Europa e del «disperato bisogno di creare un ponte che unisca il divario tra scienza e politica» parlava un articolo del «Scientist Maga-zine» e a scriverlo era Didier Schmitt, capo dell’Ufficio per la consulenza scientifica del Regno Unito e dell’equivalente ufficio del Presidente della Commissione Europea. Schmitt conosce le differenze tra scienziati e politici: i primi non sono dipendenti dal consenso dei cittadini, sono poco inclini alle discussioni retoriche e non ritengono (a torto) essenziale l’impegno nella politica; i secondi hanno difficoltà a distinguere le opinioni dei commentatori dai fatti scientifici validati dagli esperti tramite prove empiriche e riconoscono negli scienziati, a differenza di quasi tutti gli altri gruppi di interesse, una comunità disomogenea, litigiosa, con cui è difficile aprire un confronto. L’autore auspica quindi che nelle università si avviino corsi di politica basata sulle prove d’efficacia. Vorrei aggiungere una proposta pratica. Gli scienziati invitino nei laboratori i politici e sappiano loro mostrare sul campo i meccanismi classici di validazione delle prove, dal doppio cieco alla valutazione statistica dei risultati sino alla loro replicabilità («Nature» suggeriva ai politici di imparare 20 concetti per saper valutare, spesso controintuitivamente, le ricerche scientifiche).

E i politici, a loro volta, comincino ad avere nel proprio staff consulenti scientifici di diverse aree disciplinari, possibilmente non politici-scienziati di professione ma scienziati impegnati nella vita di laboratorio, dotati quindi di quell’aggiornamento e disinteresse economico necessari per ogni consulenza governativa. In questo senso mi pare si diriga il dibattito sulla riforma del Senato, che va nella direzione non demagogica e rischiosa della chiusura di un organo che ha spesso rappresentato un argine a spinte populiste o autoritarie, ma nella direzione di un Senato delle competenze regionali e della cono- scenza. Un Senato che, sulla scorta delle Camere Alte nordamericana e britannica, possa avere tanto competenze ispettive quanto di indagine sui temi che – come suggeriva il Presidente del Senato Grasso – riguardano la scienza e i diritti della persona, dalle staminali all’eutanasia. Nella civiltà mediatica, dove a creare l’opinione pubblica su temi sensibili sono spesso trasmissioni d’intrattenimento (creando fenomeni come l’inammissibile supporto al cosiddetto metodo Stamina), organi di informazione come la Rai dovrebbero dotarsi di forme di controllo – per esempio comitati di esperti – per la diffusione delle informazioni scientifiche di rilevanza sanitaria ed economica nazionale. In una civiltà della conoscenza, dove lo sviluppo tecnico-scientifico è destinato a giocare un ruolo primario, politici e scienziati devono imparare a dialogare. Per il bene economico e perla salute di tutti.