Grazie dell’invito dell’Associazione Coscioni. Parlare di diritti in casa dell’Associazione Coscioni è difficile perché si rischia di dire sempre le stesse cose; siete tutti molto sensibili all’argomento perché lo vivete sulla vostra pelle, siete dei militanti di questo tema e quindi non aspettatevi grandi novità. Da un certo punto di vista, fortunatamente, non ci sono grandi novità. Proviamo a fare un quadro della situazione. Allora due sono le libertà fondamentali che fanno si che possiamo dire “siamo in un posto possibilmente civile”: una è la libertà di espressione, se togliamo quella se ne cade tutto; e l’altra è quella di disporre del nostro corpo nel senso che nessuno ci può dire quello che dobbiamo fare con il nostro corpo, la nostra vita e tutto quello che significa il nostro corpo come espressione della nostra personalità, della nostra storia e via di seguito. E qui ci sono alcuni punti fermi che vale la pena ricordare. Intorno al concetto di autodeterminazione qualche anno fa si è definita e finita la storia di Eluana Englaro; ma si è definito anche uno standard giuridico che tiene per il momento. Fortunatamente i tentativi parlamentari di stravolgere non la specifica decisione ma i diritti che vi sono sotto, i presupposti giuridici non stanno andando in porto. Io ricordo quando due anni fa in un mio libro in cui parlavo di queste cose – all’epoca era vivo il dibattito sul disegno di legge Viganò – feci la scommessa di non parlarne, dicendo in due righe “stanno discutendo della follia, secondo me non passerà”; ma siamo sempre sul filo perché i tentativi sono ancora in corso. Bisogna ricordare che quello che hanno detto i giudici italiani sul caso Englaro, che costituisce oggi una base solidissima, ha avuto un riconoscimento importante anche a livello europeo; per cui non è che l’Italia ha fatto una cosa strana; faceva una cosa strana finché non affermava quelle cose. Tra i tanti passaggi del caso Englaro vi fu quello di un gruppo di familiari, di pazienti e di persone che erano in una condizione analoga a quella di Eluana Englaro, che andarono alla Corte europea dei diritti dell’uomo dicendo “noi siamo minacciati da questa decisione, dall’esecuzione di questa decisione”. E la Corte europea dei diritti dell’uomo disse una cosa fondamentale: “voi non potete lamentarvi di quel concetto giuridico espresso dalla corte perché se si applicasse al vostro caso, voi dimostrate di avere una volontà di continuare a vivere anche nelle stesse condizioni di Eluana Englaro; ebbene, quello che hanno stabilito i giudici italiani è che questa volontà dovrebbe essere rispettata nel vostro caso. Per cui è lo stesso concetto che ha consentito a Eluana Englaro di cessare la penosa condizione di stato vegetativo permanente che nel vostro caso si applicherebbe in un modo diverso”.

Voi direte questi sono tecnicismi, ma sono dieci righe di aria fresca, nel senso che sono quello che io chiamo “senso comune costituzionale” che ormai può dirsi affermato su queste cose. Nel senso che, fortunatamente, se facciamo macchina indietro, noi tendiamo sempre a dire che siamo in una situazione pessima, e abbiamo molti buoni motivi per dirlo, ma se pensiamo a com’era la situazione dieci anni fa, possiamo dire che oggi devono rimontare più terreno culturale e giuridico quelli che sono contrari a decisioni come quella sul caso Englaro, di quanto non ne dobbiamo rimontare noi nel momento in cui proviamo a contrastare quelle strane idee di tipo intollerante che emergono nei disegni di legge che sono in discussione al Parlamento. E in Europa sta anche cambiando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle questioni di fine vita perché dopo il caso Pretty, che fu un po’ ambiguo nelle sue decisioni, la decisione sul caso Englaro e poi un caso successivo, il caso Hass contro Svizzera, segnano un progresso. Altro aspetto, nel caso di Eluana Englaro vi è l’affermazione del diritto di non essere invasi nel proprio corpo anche se in quel momento non si è in una condizione di capacità di intendere e di volere. Ma, più o meno negli stessi anni, vi è stato anche il caso di Piergiorgio Welby dove è stato affermato il diritto a ricevere, con la collaborazione di un medico, del dare corso alla volontà di non essere invasi perché la situazione era quella di una persona perfettamente capace di intendere e volere nel momento in cui si discuteva, quindi non vi erano i problemi del caso Englaro quali la volontà proiettata nel tempo. La volontà di Piergiorgio era chiara, puntuale, istantanea e attuale, contestuale all’esecuzione; però Welby non era in grado di dare corso pratico, anche se lui avesse voluto strapparsi dei tubi, non poteva farlo. E allora di qui l’obbligo di collaborazione e il fatto che anche questo è andato a costituire sedimento del livello culturale giuridico italiano; in quel caso vi è un obbligo di collaborazione, di aiuto da parte dei medici. Infatti, il Dottor Riccio è stato assunto per adempiere ad un dovere. Ripeto, dieci anni fa l’Italia sembrava uno strano pianeta in questo campo, ora ci siamo in qualche modo, allineati a queste cose. Un punto importante è quello della collaborazione pubblica nell’esercizio e nella tutela dei diritti perché sappiamo che una teoria molto rigorosa e stretta dei diritti e delle libertà dice che “tu sei libero, ma fai tutto da te; la società si disinteressa di te; per cui se sei in condizioni di difficoltà o disagio soccombi”. Questa è una concezione liberale un po’ troppo stretta che non tiene conto di una serie di circostanze che rendono necessario e civile l’intervento pubblico a sostegno dei diritti individuali. Però, attenzione, bisogna avere dei limiti e dei criteri molto chiari. Veniamo alle cose di più attualità; le cure con le cellule staminali di cui si è parlato a Brescia e a Venezia. Qui è ritornato un tormentone che quelli più avanti negli anni come me ricorderanno di qualche anno fa, è il tormentone del caso Di Bella. Allora, io chiedo al Servizio sanitario nazionale di ricevere un determinato trattamento, il servizio sanitario nazionale me lo nega poiché dice che non vi è una base scientifica; io ricorro al giudice che dice che la costituzione all’articolo 32 riconosce il diritto alla salute e quindi, nonostante i dubbi, ordina venga praticato il trattamento. Questo ragionamento si è ripetuto, seppure in una pronuncia provvisoria, in un ricorso recente a proposito delle cellule staminali. Un punto importante secondo me è che sono tutti d’accordo sul fatto che per quelle cure non vi è la minima evidenza scientifica. Ad esempio nel caso del ricorso presentato davanti al Tribunale amministrativo regionale a Brescia, i medici e i ricorrenti presentano una pubblicazione dello stesso medico che fa l’intervento pubblicata da lui stesso su una rivista coreana. Come Giulio Cossu ci potrà meglio spiegare, quando parliamo di prendere una decisione su base scientifica, intendiamo una cosa completamente diversa. E allora, il problema si risolve nel problema del chi paga, perché alla fine di tutto è questo. Perché non c’è, secondo me, nessuna assicurazione privata, a meno che non paghi un premio stratosferico, che ti passi quel tipo di cure. E allora, il servizio sanitario nazionale dovrebbe passarle su base solidaristica perché il servizio sanitario nazionale si basa su base solidaristica, non a scopo di profitto come un’assicurazione anche se deve pur far quadrare i conti. E allora il problema è che colui che è andato a chiedere un presidio medico chirurgico e gli è stato negato o gli è stato detto di pagare un ticket, si potrebbe incavolare un pochino e avrebbe ragione. Allora il problema è che mentre a livello individuale siamo totalmente liberi di fare quello che vogliamo, anche di curarci con il brodo di gallina; le scelte pubbliche vanno fatte su una base razionale minima riconoscibile e al momento in campo medico scientifico l’unica cosa che abbiamo è l’esistenza di studi e ricerche che abbiano portato a determinati risultati. Altri problemi riguardano com’è condotta la ricerca scientifica che poi porta a quei risultati perché dire che le scelte pubbliche devono essere basate su evidenze scientifiche solide presuppone che il sistema della ricerca funzioni in modo adeguato e che quindi gli obbiettivi, i finanziamenti alla ricerca, il modo in cui viene effettuata e come vengono pubblicati i risultati diventa estremamente importante perché se il sistema della ricerca in sé non funziona bene, abbiamo una cattiva base per le decisioni pubbliche. Un altro aspetto sempre collegato a questo è quello dei brevetti su alcune metodiche o ritrovati. Noi abbiamo due casi che sono molto importanti e che hanno effetti sulla vita delle persone: uno è il caso tutt’ora in discussione negli Stati Uniti che vede la Myriad che cerca di difendere i propri brevetti per il brac1 e il caso Brustol in Europa. Nel caso Myriad c’è stata una decisione di primo grado in cui il giudice ha affermato che l’altezza inventiva del brevetto è inesistente perché c’è semplicemente la descrizione di un gene. Il giudice ha detto che il solo isolamento del gene e la descrizione non hanno altezza inventiva tale da poter essere posti alla base di un brevetto. Poi la corte d’appello ha rovesciato quasi integralmente questa decisione e la corte suprema federale ha dato un’indicazione in un caso simile e quindi la questione è aperta. quando agli inizi degli anni novanta cominciarono ad arrivare i primi isolamenti di geni, brca1 e brca2 furono tra i primi ad essere isolati. Io ricordo il grande clamore ed l’emozione che passava dai genetisti anche a noi che orecchiavamo queste cose occupandocene e tutti pensavamo che fosse una cosa di un’importanza straordinaria. Sicuramente era importante, però in quegli anni sono stati concessi dei brevetti secondo dei criteri che erano un po’ troppo larghi, dovuti all’effetto della novità psicologica, comunicativa e sociale del fatto che si stavano isolando questi geni. Probabilmente ora è arrivato il momento di tornare alla normalità dei criteri di riconoscimento e non riconoscimento dei brevetti. Quindi è giusto che anche quel tanto di profitti necessariamente collegati al sistema dei brevetti si ridimensioni in relazione al fatto che rientriamo nella norma. Invece, la decisione europea del caso Brustol è una decisione molto ideologica perché lì si riconoscono i diritti della persona anche a qualcosa che ancora non è un embrione. È un cattivo esempio; è una sentenza e io spero che ci sia modo nell’evoluzione europea di avere sentenze di tipo diverso. L’ultimo tipo di argomento che vorrei affrontare è quello che riguarda le nuove tecnologie, la robotica, la domotica e via dicendo. Allora, in Italia, ma per la verità non solo in Italia, di fronte a queste tecnologie e alla possibilità di connettere il cervello ad una macchina e quindi all’instaurazione di un dialogo tra cervello e macchina e che dalla macchina ritorni un input al cervello della persona, si provano sentimenti di interesse e curiosità ma anche di preoccupazione e avversione. Io penso che tutte queste possibilità tecnologiche che si stanno aprendo, alcune già avviate, sono da accogliere con la massima disponibilità e la massima attenzione. La questione della interazione cervello-macchina è una cosa che laddove comincia a funzionare vi sono dei problemi però, la sperimentazione avanzata consente di avere protesi che non sono protesi alla vecchia maniera di sostituzione puramente meccanica dell’arto o della parte del corpo compromessa, ma consentono di avere delle protesi intelligenti che rispondono allo stimolo cerebrale. E allora, saranno pure tecnologie che fanno pensare a stranezze fantascientifiche ma, il minimo progresso in questo campo può avere una ricaduta fantastica nella vita delle persone che portano sulla loro pelle o sul loro corpo delle difficoltà enormi. Cioè il recupero, seppur parziale di alcune capacità motorie perse, ha un grandissimo valore che, chi ha la fortuna di non avere questi problemi, secondo me non potrà neppure immaginare. Dunque questo è un campo che io credo debba essere tenuto d’occhio e incoraggiato. Bisogna smitizzare tutti questi terrori verso la scienza. Alcune preoccupazioni filosofiche hanno un nobile fondamento ma io preferisco un approccio diverso in termini non giuridici ma in termini sociologici. Da questo punto di vista mi piace molto l’approccio di Saskia Sassen, una sociologa europea che da molti anni vive e lavora a Chicago negli Stati Unite. Lei afferma che le tecnologie sono pensate dagli ingegneri con una determinata idea, poi vanno nel mondo e il mondo le utilizza anche oltre le idee iniziali degli ingegneri. Allora un conto è se una tecnologia è usata da una società finanziaria; un altro è se è usata da una ONG; un altro se usata dall’Associazione Coscioni. Allora, Sassen vede in questo una possibilità di metabolizzazione da parte della società delle novità tecnologiche. Io credo che anche da un punto di vista dell’accettazione giuridica si debba procedere in questa direzione. Lei dice che il luogo fondamentale di metabolizzazione è la città; e afferma che il nostro progetto deve essere “to urbanise technology”; ma noi potremmo dire “we should legalise technology” non nel senso di come si diceva di legalizzare le droghe ma dovremmo avere la capacità di far interagire queste tecnologie con il mondo del diritto in modo sereno, sdrammatizzato, senza ideologie e discorsi laici. Lavoriamoci dentro e saremo migliori. Grazie.